Boulevardier of broken dreams – I Puntata
di Bracco Mordilo
I ricordi dolorosi fanno paura.
È un po’ come l’attesa della siringa.
Mi spiego meglio.
Gli esseri umani, come gli animali, vivono di esperienze e mutano i loro comportamenti in base a ciò che hanno vissuto.
Se un topo mangia una bacca disgustosa o dannosa, possiamo essere sicuri che girerà al largo da quella tipologia di cibo per sempre.
Così, noi uomini, come topi sapienti, sappiamo quando una situazione ci provocherà dolore, però, essendo infinitamente più testardi di qualsiasi altro essere, perseveriamo, cosa, tra l’altro, che noi stessi definiamo diabolica.
Allora, non ci chiediamo se ci farà male ma ci limiteremo semplicemente a cercare di capire quanto dolore ci provocherà.
Così ricordiamo e abbiamo paura.
Ci rabbuiamo, cerchiamo di valutare se staremo peggio della volta passata.
Per questo è un po’ come l’attesa della siringa: il problema non è il dolore che provoca l’iniezione, piuttosto, la circostanza che siamo già sicuri del dolore stesso.
Dunque, quando siamo lì, in attesa di ricevere un ago nel braccio, facciamo un rapido esame assiologico del nostro destino, compariamo il dolore che crediamo di provare, di lì a pochi secondi, con il massimo del dolore che possiamo sopportare.
Da eterni ottimisti, perché siamo degli eterni ottimisti, pensiamo che se siamo sopravvissuti alla rottura di un polso, potremo superare una punturina.
Poi l’ago arriva in maniera infame, e con lui il dolore.
Ecco.
È un po’ come un “sabato del villaggio”, però al contrario.
È un “lunedì del villaggio”.
I brutti ricordi, nondimeno, sono anche pericolosi.
Sono pericolosi perché non siamo bravi come i topi nelle valutazioni.
Loro vogliono solo mangiare, riprodursi e sopravvivere.
Noi, invece, vogliamo solo mangiare, riprodurci e sopravvivere, ma tendiamo leggermente a dare più importanza al contorno, che agli obbiettivi.
A volte, in aggiunta, non sappiamo neanche quali siano precisamente questi nostri obbiettivi ma bramiamo il contorno.
Allora, i ricordi diventano pericolosi, perché non sappiamo riconoscere bene le bacche e non sappiamo valutare bene quanto male farà una puntura, quindi, mentre il topo se ne fotte e passa avanti, noi rischiamo di pensare a quella bacca per tutta la vita, oppure, in maniera estremamente più tragica, non mangeremo più nessuna bacca, rischiando di vivere meno o di lasciarci vivere, pur di non soffrire.
E allora sì, che sono pericolosi i ricordi.
Questa storia è dedicata a tutte le bacche e soprattutto a chi è stato più scemo di un topo e ha riprovato a mangiare una bacca che gli ha fatto male, soffrendo, ma vivendo immensamente meglio.
Ecco.
Voi che avete deciso di soffrire pur di essere felici, siete i miei eroi.
Hasta la resilienza siempre.
P.s. I capitoli sono scritti in momenti di sobrietà.
I bolulevardier da brillo.
Capitolo I
Daisy aprì gli occhi e sentì il respiro profondo dell’uomo coricato accanto a lei, in quel letto di hotel con le lenzuola non abbastanza profumate da coprire la puzza di vergogna.
Aveva giurato a se stessa che non ci sarebbe ricascata.
Invece era lì, come sempre.
Questa volta era l’ultima.
Non aveva più bisogno di fare quella vita.
Non poteva continuare a reggersi ad un destino di sofferenza per paura di non andare avanti in altre maniere.
Si alzò lentamente, evitando, come se fosse in un campo minato, gli oggetti che avrebbero potuto fare rumore.
Diede uno sguardo al mucchio di banconote sul comodino e scosse la testa.
Si odiava per averlo fatto.
Conosceva l’uomo nel letto da tanto, tanto tempo.
La differenza di età si annullava quando era stesa e un corpo ancora tonico, seppur non più giovane, continuava a non dispiacerle affatto.
Questo le rendeva tutto più facile, tuttavia, le stava rovinando la vita
Raggiunse a piedi nudi lo specchio del bagno e vide il suo fisico in topless.
Era bella e lo sapeva benissimo, eppure, non si era mai sentita così disgustosa.
Si toccò il ventre piatto, con un gesto simile ad una carezza, poi, iniziò a piangere. A dirotto.
Raccolse le sue cose, soldi compresi, e chiuse piano la porta.
Scese nella hall lussuosa, raccolse una serie di sorrisi e si ritrovò, quasi senza accorgersene in un taxi.
Era passata da poco l’alba ma non era assonnata.
Chi, come lei, nonostante i suoi ventisette anni, non conosceva un giorno di lavoro, non poteva avere dei ritmi e il sonno era un compagno improvviso e mai puntuale.
Impiegò una manciata di minuti a raggiungere la strada del suo appartamento.
Entrata in quella che chiamava casa, senza mai esserne stata convinta, iniziò a riempire un grande zaino da viaggio, appena comprato, con t-shirt e felpe.
Terminato l’infarcimento del bagaglio, aprì una cassaforte posizionata, in maniera per nulla originale, dietro ad un quadro.
Nella parte posteriore della piccola tana in acciaio, si mostravano, in tutta la loro bellezza, delle mazzette di banconote piuttosto voluminose, un passaporto britannico ed un fascicolo beige.
Raccolse tutto il contenuto e lo infilò, senza troppa cura, nello zaino.
Subito dopo, prese una decisione dolorosa quanto importante: estrasse il fascicolo, lo aprì, e ne tirò fuori dei fogli marcati dal logo di un ospedale.
Diede un’ultima occhiata a quella carta crudele, la gettò nel cestino e riprese a piangere in maniera disperata.
Non appena si fu ricomposta, prese dal comodino un vallett con dei biglietti aerei e scese per la strada, poi, chiamò un’auto con una applicazione del cellulare: destinazione Aeroporto Internazionale di Londra.
Capitolo II
Moa aveva le occhiaie.
Non era riuscito a dormire.
Erano passati dieci lunghi anni da quando si era trasferito a Londra e non poteva certo pensare che sarebbe finita così.
Era stato bravo.
Era diventato famoso.
Eppure, le sue capacità non erano state sufficienti a evitargli l’ultima grande delusione.
Moa si era dimesso.
Andava bene tutto, ma l’umiliazione no.
Era il migliore nel suo campo e lo sapeva bene, ma non era bastato.
Quando aveva iniziato ad aggiustare gli apparecchi telefonici, era solo un bambino.
Ne aveva fatta di strada, metaforica e chilometrica, ma adesso non ce la faceva più.
L’ossessione per la carriera non gli aveva permesso di avere una vita.
I soldi.
Voleva essere ricco e ci era riuscito, ma, adesso, voleva godersi la vita, o meglio, cercava di prendersi in giro nel tentativo di dimostrare a se stesso che fare un bel viaggio sarebbe stato il premio migliore.
Tuttavia, non riusciva a capire due aspetti: per cosa dovesse premiarsi e con chi dovesse partire.
Moa era solo.
Non aveva amici, solo conoscenti.
Si era prefissato un lunghissimo periodo di riflessione.
Un bimestre, un semestre, un anno sabatico.
Dal momento in cui si era dimesso, erano iniziate a fioccare chiamate, richieste, offerte.
Nulla.
Avrebbe ripreso a lavorare solo quando si sarebbe stancato di vivere.
Doveva pur spendere quei soldi che aveva impilato.
Accese la televisione e diede un’occhiata distratta alle breaking news che scorrevano a piè di schermo.
Quando individuò la notizia delle sue dimissioni, si inorgoglì, tuttavia, dopo pochi secondi, lo invase una tristezza pesante, di quelle che ti fanno sentire un blocco allo stomaco.
Aveva tutto il necessario già pronto.
Lui era così, sapeva organizzarsi in maniera noiosa e maniacale.
Si concesse una doccia lunga e bollente che gli permise, ancora una volta, di carezzare il suo corpo muscoloso, sebbene non proprio giovanissimo.
Si vestì in maniera elegante anche se informale.
Aveva quarantatré anni e non conosceva altri outfit se non quello da lavoro e quello per i giorni di astensione convenzionale dal lavoro.
Anche l’abbigliamento, per lui, consisteva in una questione da risolvere con praticità ed efficienza.
Spinse il pulsante per la chiusura centralizzata delle inferriate, digitò il codice alfanumerico dell’allarme e scese per strada, dove trovò una berlina ad aspettarlo per accompagnarlo in aeroporto.
Capitolo III
L’attesa per l’imbarco è una delle cose più stressanti che esistano.
Se da un viaggio in aereo potessimo estrapolare tutti i piccoli momenti di attesa, di file ai controlli, di microscopiche pratiche burocratiche, volare sarebbe infinitamente più gradevole.
Quel giorno, all’Aeroporto di Londra-Heathrow, dinanzi al gate per il diretto per Los Angeles, le panchine per l’attesa erano brulicanti di futuri passeggeri.
Moa alzò per un attimo gli occhi dal suo romanzo preferito.
Ancora una volta, stava leggendo “le relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos.
La verità era che adorava quel libro per un’unica ragione: per quanto la sua vita fosse stata scandagliata dai ritmi di lavoro di un uomo in carriera, bramava rapporti amorosi.
Il problema era che Moa non era adatto al ruolo di conquistatore.
Dato che il suo tempo libero era piuttosto limitato e le sue conoscenze circoscritte all’ambito professionale, non aveva avuto la possibilità di far crescere un rapporto fino al “finché morte non vi separi”, al contrario, le diverse storie d’amore o di sesso si erano limitate a liaisons di poco valore.
Per di più Moa aveva un grandissimo difetto: non conosceva affatto le strategie che servono a portare a proprio vantaggio il fragilissimo equilibrio in un flirt.
In buona sostanza, era incapace di farsi amare.
Benché di bella presenza, interessante e brillante, cadeva sempre nella trappola delle donne, a causa della sua incapacità di tirarsi indietro.
Dava tutto e subito, così, le sue amanti perdevano interesse in lui.
Quando una storia nasceva dall’attrazione sessuale, il problema non si poneva.
Era capacissimo di rivestirsi e andare via, oppure, di archiviare la signorina di turno come fosse una pratica esausta: con garbo e charme, ma senza riverberi e imbarazzanti prosegui.
Il problema era l’opposto.
Non sapeva conquistare chi lo conquistava.
Se provava interesse per qualcuna e si trovava a suo agio con lei, prendeva piede nella sua mente uno strano meccanismo per il quale voleva, anzi, doveva darle il mondo.
In questa maniera, aveva collezionato una serie infinita di delusioni.
Per questo voleva essere come il visconte di Valmont, avrebbe voluto divenire più cinico nelle sessioni di conquista.
Quando lo sguardo di Moa si fu dileguato dalle pagine consumate del libro, vide, proprio dinanzi a se, una ragazza bellissima.
Daisy era seduta sulla panca metallica di fronte alla sua.
Accomodata come se fosse in una posizione yoga, la ragazza era estremamente concentrata in una lettura.
Indossava delle sneakers di marca, un jeans attillato ed una felpa troppo larga per quel corpo magrissimo.
Aveva dei capelli meravigliosi, castani e lunghissimi che facevano da semiperimetro ad un viso incantevole, caratterizzato da degli enormi occhi neri.
Moa passò qualche secondo a fissarla.
Dopo alcuni istanti, la ragazza alzò lo sguardo e si creò quel meraviglioso momento di imbarazzo che scaturisce dall’incrocio dei coni visivi di interessato e interesse.
L’uomo girò immediatamente la testa, tuttavia, come ovvio che fosse, dopo una quantità di tempo ridicola, dedicò nuovamente lo sguardo alla ragazza.
Daisy non aveva affatto abbassato lo sguardo, al contrario, aveva chiuso il volume e studiava incuriosita il suo dirimpettaio.
Quando si accorsero della coincidenza, entrambi si abbandonarono ad una scrosciante risata: il libro che la ragazza stava leggendo era “le relazioni pericolose” di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos.
Capitolo IV
Daisy non ci pensò un momento, scompose la sua seduta da fachiro indiano per raggiungere immediatamente Moa sulla panca di fronte alla sua e disse, offrendo una mano affusolata smaltata di rosso:
<Ciao io sono Daisy!>
L’uomo strinse con decisione, ma senza troppa forza quelle dita eleganti e si presentò.
Non fece neanche in tempo a scegliere una frase ad effetto, che la ragazza prese a chiedergli:
<Perché tra tanti libri stai leggendo proprio quello?>
Moa rispose con una reazione di sincero automatismo:
<È il mio romanzo preferito.>
La ragazza emise una smorfia sincera, poi ridacchiò e riprese a interrogare:
<Sei un maniaco sessuale?>
Moa rimase esterrefatto e arrossì immediatamente, poi i due si guardarono dritto negli occhi e scoppiarono in una risata fragorosa.
Senza essere interrogata, la ragazza iniziò a dare spiegazioni:
<Non sapevo dell’esistenza di questo romanzo.
In realtà si stava parlando di film preferiti durante una cena.
Era una di quelle serate dove ognuno fa a gara a sembrare il più figo.
Io dissi semplicemente la verità: “Cruel intentions”.
Scoppiarono tutti a ridere.
Uno di quei grandi intellettuali che non fanno altro che vedere film in russo con sottotitoli in curdo mi disse che era ridicolo che il mio film preferito fosse una romanza da adolescenti.
Fu lì che accadde.
Un italiano che era stato in silenzio tutto il tempo, bevendo un sorso del suo drink disse con voce ferma:
<Veramente è un’ottima interpretazione in chiave moderna di “le relazioni pericolose” di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos.
Anche se il regista ha fatto solo pellicole commerciali e per famiglie, non vuol dire che l’autore di “Puzzole alla riscossa” non possa aver girato un’opera metitevole.>
Non ho mai ringraziato tanto un uomo per un suo intervento.
Da ragazzina idiota, passai a cineasta di talento in un microsecondo.>
Tenerezza e sensualità sono come whisky, vermouth e campari: non vanno molto d’accordo ma se li sai miscelare con equilibrio ti mettono ko senza che tu possa rendertene conto.
I Boulevardier
Poi la botta arriva ed è potentissima.
Ovviamente, non è ancora amore, ma una sensazione fortissima che ti prende una parte di cervello che si mette al lavoro solo in quelle circostanze.
Non prendiamoci in giro, non serve tra persone intelligenti, la prima cosa non è il “carattere”.
Il primo protagonista del nostro supplizio risiede spesso in particolari fisici, o della personalità.
Se sei un uomo, non saranno seno, sedere, gambe o occhi a fotterti, ma il combinato disposto di una serie di particolari.
Se sei una donna, sarà la potenza, l’eleganza o il modo di attirare l’attenzione su di sé, come se fosse l’unica luce in una stanza di falene arrapate.
Ebbene, Moa vide in Daisy quel seno prosperoso, mal celato dalla felpa larga, che anticipava una vita strettissima, seguita da gambe lunghe e magrissime che finivano per lasciar intravedere delle caviglie quasi trasparenti, per poi disperdersi in un paio di scarpe, costose ma banali.
E poi, quelle mani lunghissime e curate, impreziosite da uno smalto rosso fuoco, che contrastavano con l’aspetto trasandato.
Come una macchia d’eleganza in una tavola di perfetta banalità: chi cazzo è Kandinsky senza quel colore che non c’entra niente, ma rende la confusione armonica?
Il secondo posto lo prende a spallate l’odore, non il profumo.
L’odore della pelle, anche se catalizzato da un eau de toilette di prima scelta, è fondamentale.
Pensi prima a quanto sia gradevole, poi a quanto sarebbe piacevole sentirlo mentre le baci il collo e finisci con il desiderare di sentirlo trionfare addosso, dopo mille docce post sesso.
Cazzo quanto è bello immaginare.
Come sarà sotto la doccia?
Come sarebbe toglierle il reggiseno e baciarle quella meravigliosa zona d’ombra che ha tra i seni?
E poi via, a lasciar entrare i feticismi e le perversioni come degli americani di mezza età durante il black Friday in un negozio di elettronica.
Chi penserà a quanto sarebbe soddisfacente possederla con violenza, chi con dolcezza, chi vorrà sapere che tipo di intimo indossa e chi se ha l’abitudine di estinguere ogni bulbo pilifero superfluo.
Chi vorrà mascherarsi, chi riprendersi con una videocamera, chi farlo in un posto pubblico e chi stringerle il collo.
Nulla di sbagliato, basta osannarla, con rispetto.
Moa la vide già in topless sul lettino di una spiaggia tropicale e tanto gli bastò a farlo sentire indirizzato verso un obiettivo importante.
Non era ancora perso, ma iniziava molto seriamente a non orientarsi più e a voler sembrare forte, interessante, potente e desiderabile.
Poi arriva l’ansia da prestazione della conoscenza, ma se ne parla al secondo boulevardier.