Fotogramma di “The Young Pope” di Paolo Sorrentino, da Sky Atlantic, 2016.

 

di Manuela Latrofa

psicologa

 “L’arte fatta dalle donne non ha bisogno di nessuna particolare perorazione di difesa” insomma non c’è bisogno di “nessun riguardo particolare per le donne”.

È così che conclude il suo primo capitolo di “Celibi” Rosalind Krauss, celebre storica e critica d’arte. La Krauss mette in evidenza la necessità di una decostruzione del riconoscimento di genere per la critica femminile e non più femminista.

Quando si parla di arte al femminile si incorre spesso nel confronto con un arte al maschile, ricadendo nei cosiddetti stereotipi di genere: opere sinuose, delicate, sensibilità… Essi entrano prepotentemente nel giudizio di chi osserva. L’ancoraggio ad uno stereotipo, ossia qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, e ad una categoria risponde alla necessità di dare ordine e semplificare la complessità. Risponde al processo che in psicologia sociale viene definito di categorizzazione, che consente di inserire in gruppi di categorie le persone, in questo caso, per l’impossibilità di gestire simultaneamente un gran numero di informazioni che bloccherebbero la presa di decisione. Ciò che non è noto e conosciuto crea vissuti di ansia e di angoscia, trovare una categoria in cui inserirlo riduce tali vissuti. L’arte al femminile è stata ed è soggetta allo stesso meccanismo di semplificazione della complessità, poiché innovativa e per certi versi, “fuori dagli schemi”.

I rassicuranti stereotipi e ruoli sociali sulla donna, vengono sovvertiti e discussi dal riconoscimento di nuove istanze interne delle donne che a piccoli e, a volte eclatanti passi hanno recuperato terreno. Le donne stesse immerse e cresciute in impianti valoriali, culturali e sociali hanno subìto e abbracciato tali stereotipi fino ad una esigenza di separazione ed individuazione per la scoperta e l’affermazione del proprio Io. Tale argomentazione non esclude gli uomini o qualsiasi altra categoria. Anch’essi hanno attivato un processo di costruzione della propria identità. Pertanto parlare d’arte al femminile o arte al maschile perde di senso se non vista nell’ottica dei significati, delle emozioni e dei bisogni che essi vogliono trasferire all’inconscio personale e collettivo.

Tracciare una storia dell’arte al femminile vuole essere un mettere in risalto, bisogni, desideri, conflitti ed emozioni che hanno definito l’essere nel mondo dell’artista, il proprio esserci. L’arte è il ponte diretto con l’inconscio dato che conserva il suo stesso linguaggio, l’immagine, e con essa, offre una rappresentazione del mondo interno, come le opere della Whiteread capaci di svelare ciò che non si vede, quello che c’è dentro, quello che si vive e si sente, facendone un calco. L’arte è l’incontro e lo scontro con la propria ombra,  con le proprie parti scisse che hanno occasione di essere proiettate fuori da sé ed integrate, come negli autoritratti di Frida Kahlo o nelle fotografie della Airbus. Discretamente, l’arte dà immagine ad istanze interne e luoghi sacri dell’anima conservando sempre un mistero, non è mai esaustiva, permettendo così al fruitore di proiettare su quell’opera tutto quello che si attiva al proprio interno, azionando un dialogo emotivo e plurisignificantetra dentro e fuori, in cui sentire le proprie risonanze. È forse questo che intendeva l’Airbus quando definiva la fotografia “un segreto che racconta un segreto, che più cose  racconta e meno ne sai”.

L’opera d’arte comunica con una forza dirompente e “perturbante” direbbe Freud, spalancandosi al nuovo, all’ignoto e all’inconscio ma soprattutto rendendo nuovo e diverso il conosciuto, con l’apertura a prospettive inaspettate.

L’intento è cogliere, sentire, analizzare, a volte interpretare e identificare la forza perturbante dell’arte al femminile, di questo nuovo sguardo, di questa donna, come mostra l’imponente e provocatoria scultura Hon/Elle di Niki de Saint Phalle. Una donna impostata naturalmente e culturalmente per ospitare ed accogliere l’Altro da sé, in modo che possa crescere e trasformarsi al proprio interno, uscendone da essa, in una esplosione gioiosa, lo stesso, ma profondamente cambiato, mantenendo la sue essenza ma aprendosi a prospettive inaspettate. Una donna trasformativa, resiliente, una donna che si emancipa dal femminismo, in cui si è essa stessa intrappolata e diventa se stessa condizionata e condizionante, attiva nella vita e nella società, abbandonando la razionalità e seguendo il proprio sé, integrando il maschile e il femminile.

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