Una storia dell’arte defemministizzata. Perché no?
PH: Diane Airbus, published by httpwww.escapeintolife.comartist-watchfederico-erra
di Enzo Varricchio
L’arte è arte, non è maschio né femmina, e questo lo sappiamo.
Tuttavia, è palese il mutamento di equilibrio intervenuto dalle avanguardie storiche ad oggi. Lo sguardo dell’arte non è più sulla donna e sulle donne ma della donna e delle donne sul mondo.
Quanto spaziotempo culturale è trascorso dallo slancio trasgressivo, e per questo esecrabile, della poetessa Saffo, della mistica visionaria Ildegarda di Bingen, o della pittrice manierista Artemisia Gentileschi, violentata nel corpo per aver osato superare quel Tassi maestro di prospettive e di stupri dal quale il padre Orazio l’aveva mandata a bottega, inviolata nella forza d’animo del continuare a dipingere lasciando un esempio per tutte le altre a venire?
Quanto devono a Saffo, Artemisia e alle altre meno note eroine stereotipate che le hanno precedute Frida Kahlo, Georgia O’Keeffe, Tamara de Lenpicka, fino alle nostre contemporanee che dominano la scena dell’arte mondiale, Marina Abramovic, Rachel Whiteread, Zoë Buckman, Mariko Mori, Laurie Anderson o Orlan? Per non parlare del cinema di Chantal Akerman e Sophia Coppola o della fotografia di Diane Airbus e Sophie Calle oppure della moda di Coco Chanel e dell’architettura di Zaha Adid.
Esiste un filo lumescente che unisce il lavoro di queste artiste ma sinora è stato l’unica chiave di interpretazione che escludeva le altre. Questo filo è la lotta per esistere, per dirla con una parola abusata la “resilienza” delle donne, il loro bisogno di libertà individuale e rilevanza sociale osteggiato dalla filosofia e dalla religione e trasformato in parità di diritti dal femminismo, un bisogno che l’arte ha potuto tradurre in versi e in immagini universali. Oggi il processo di emancipazione è quasi del tutto compiuto e anche i ricorrenti femminicidi non sono altro che gli ultimi tremendi rigurgiti dell’inadeguatezza maschile al cambiamento dei costumi.
La verità è che ora l’iconografia dominante è dettata dalle donne e dall’arcipelago gay, principalmente attraverso l’arte, la pubblicità e la moda, mentre l’uomo-maschio ha perso il suo dominio plurimillenario sugli oggetti della visione, proprio la tanto a ragione criticata “visione maschiocentrica” del mondo sta crollando quanto quella femminista tradizionale.
Eva ha riscattato il suo peccato originale, con tutte le implicazioni psicosociologiche e massmediatiche del caso.
Quando nel 1966 Niki de Saint Phalle creò per il Moderna Museet di Stoccolma, Hon/Elle, una gigantesca bambola incinta stesa sul dorso, i visitatori dovevano entrare dentro l’opera passando per la vagina. All’interno della bambola c’erano un bar e persino un planetario. La grande madre, anziché partorire il mondo, lo risucchiava simbolicamente, se lo riprendeva in una katastrofè che era un ritorno all’ordine violato nel neolitico con l’avvento del patriarcato, all’eden di un’età dell’oro con tutta probabilità mai esistita.
Gli anni Sessanta sono ormai lontani, addirittura oggi ci muoviamo verso una prospettiva androgina o meglio ginandrica che scaturisce dalla continua tendenza dei generi ad avvicinarsi sino a confondersi nel transgender. Non a caso, molte grandi artiste hanno vissuto una versatilità di genere e preconizzato l’ominile.
Eppure, nonostante il grande apporto da loro offerto, nessuno ha ancora scritto una storia dell’arte delle donne, nessuno ha tracciato una linea che colleghi i punti tra le artiste nei secoli, certo per timore di esser tacciato di un pregiudizio di genere. Occorre rimediare quanto prima a questa imperdonabile lacuna che dissimula una ipocrisia. La storia non si ferma davanti a un portone dice la canzone di De Gregori, la storia va raccontata e va scritta in barba ad alcun timore o pregiudizio. E la storia dell’arte fatta dalle donne non è solo la storia della loro emancipazione né si esaurisce nell’estetica, è la nostra storia, quella di noi tutti. Per non cadere in stereotipi maschilisti o femministi basterà chiedersi se le opere delle artiste che hanno fatto la storia sarebbero state altrettanto originali e rivoluzionarie se concepite da uomini, se la loro arte è tale in assoluto o solo perché prodotta da una donna. Ora possiamo finalmente permetterci di “sottrarre il femminismo” alle loro opere, di “defemministizzare” l’arte delle donne.
Utilizzando il supporto della psicologia dell’arte, si potranno evidenziare altri legami ideologici ed esistenziali tra le artiste in grado di ricostruire storicamente l’ordito di una cultura alternativa e complementare a quella degli uomini, forse spendibile ancor oggi, in un’era in cui il post human e l’alta tecnologia lasciano presagire la possibilità di “rifare l’umano”.
Tutte le culture ben radicate lottano per la sopravvivenza, talora nascondendosi per non scomparire sotto i colpi delle armi o delle mode, e anche quella “femminile” non si è sottratta a questa legge. Tutte le culture ben radicate, se resistono, alla fine vincono e tornano alla luce.
Senza il contributo artistico delle donne il nostro immaginario odierno sarebbe diverso e, soprattutto, senza comprendere il loro immaginario non riusciremo a intravedere gli scenari futuri del nostro mondo.