IL MORSO DELLA MURENA
Riceviamo e pubblichiamo questa recensione dal prof. Gianni Antonio Palumbo
Nicola De Matteo
Falvision Editore, 2018, 80 pagine.
“Mi sento anima in viaggio / generosa maternità di questo giorno / da raccontare ancora con il tempo che serpeggia / lento come murena in cerca di un anfratto sicuro”.
Sono versi centrali ai fini della comprensione dell’atmosfera che connota la silloge Il morso della murena, di Nicola De Matteo, edita nel 2018 da Falvision, con prefazione di Mario Sicolo e uno scritto di Daniele Maria Pegorari.
Il tempo rappresenta il Leitmotiv di questa nuova, matura raccolta del poeta pugliese. Da un lato esso sembra fluire lento, alla ricerca di approdi usuali, secondo una ciclicità rasserenante, ma terribilmente prossima alla stasi. D’altro canto, esiste il Tempo Kαιρός, in cui l’uomo, cedendo all’istinto e/o inseguendo aspirazioni perfino chimeriche, infrange i binari consueti, lasciandosi mordere dalle occasioni che la vita gli offre. Anche gli esseri umani sembrano dividersi in due categorie. Gli uni sono simili ai montaliani ‘uomini che non si voltano’, gli altri sono i giovanissimi, con i loro castelli di sabbia (metafora che ricorre spesso nella silloge), e i pescatori di sogni, “anime senza nostalgia alcuna”, perché perennemente protese a costruire il futuro. Con loro debbono essere considerati anche “i puri di cuore che non vedono solo muri”. Il morso della murena diviene così metafora dell’eterna “sfida terrena tra razionalità e istinto”. Apuleio ne offre illustrazione. Psiche cedé all’istinto, si fece ‘mordere dalla murena’, nel momento in cui osservò Amore, infrangendo, come in ogni ‘fiaba’ che si rispetti, il divieto impostole. Ne subì un danneggiamento, momentaneo peraltro e alla lunga fruttifero; sarebbe stato meglio se avesse continuato a vivere nella cecità di un idillio all’oscuro della Verità?
Ecco che dunque la riflessione sul Tempo e sulle relazioni che con esso l’uomo intesse diviene centrale nella poetica di De Matteo.
In primo luogo, in La legge del Tempo, l’io lirico medita sulla genesi della sua scrittura, nata dall’anelito a “osservare e rapire / l’indispensabile o l’imprevedibile oppure l’impossibile”. Il suo rapporto con esso è estremamente ambiguo. Non è di certo “anima senza nostalgia alcuna”, dal momento che, in più occasioni, stabilisce un dolente dialogo in absentia con una figura femminile: “La mia lealtà non è bastata. Forse non è / gran cosa per te, perché altri ti offriranno mondi di velluto, / di seta e nitide parole condite di menzogne”; o ancora “è stato quasi come non avere scelta / il seguire la sola strada tra le tante. / In fondo non eravamo né lì né altrove. / Ci è passata la storia addosso”.
La scrittura di De Matteo vive della dimensione del ricordo, manifestando a tratti la tendenza alla mitizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza, pennellate come paradisi perduti, e traducendo tale attitudine, sotto il profilo sociale, nell’idoleggiamento della civiltà contadina. Quella del filosofo popolano Cenzino Maiorano o della nonnina della casa accanto, con la sua ansia di vivere che si esprimeva nel legame con il mare, nume tutelare di queste nostre terre aride. Il poeta esalta, sabianamente, il garbo della sua gente, contrapposto all’attitudine tipica degli “attivisti del nulla”, proliferanti ai giorni nostri. Questa disposizione d’animo è all’origine anche della matrice narrativo-ragionativa, tipicamente meridionale (ma vicina anche alla linea lombarda), che, accanto a quella lirico-simbolica, connota i testi del Morso della murena.
È una poesia fortemente materica quella di De Matteo, che avverte il legame con la mediterraneità, nei suoi simboli e persino negli aspetti materiali della nostra civiltà, in prima battuta il cibo (tantissimi i riferimenti ad alimenti), ma, non meno intensamente, il patrimonio urbanistico e artistico (si pensi alla Madonna del Cardellino) delle città di Puglia. Il mare è presenza genericamente ben accolta: in uno dei componimenti, la contemplazione della scogliera induce l’io lirico a figurarsi, in una sorta di mistico panismo, un elevamento psichico, giungendo quasi a protendersi verso Dio. Il vento ha caratteristiche di ambiguità: il refolo è nemico, il maestrale è capriccioso e affatica le chiome degli alberi, ma, paradossalmente, De Matteo finisce con l’accostarlo alla sua vita stessa.
Curiosa la tendenza a iniziare più di un componimento o con puntini di sospensione (più raro) o con la lettera minuscola: da un lato, essa parrebbe quasi indicativa di una programmatica deminutio di quelli che il poeta chiama i suoi “pensieri ribelli”; dall’altra è riconducibile anche al fatto che quella dell’io lirico è una tensione ragionativa ininterrotta, che conosce improvviso e felice sbocco nei versi.
La scrittura, pur rifuggendo dai virtuosismi, è raffinata e comunicativa al contempo; coniuga il gusto dell’infrazione della tradizione (la collocazione in posizione di rima di vocaboli come sneakers o di nomi come Cenzino Maiorano) con una musicalità innata, spesso sottocutanea e connotata dal frequente ricorso alla consonanza. Una poesia attenta all’attualità e alle grandi problematiche dell’esistere, che non perde smalto ed è anzi potenziata dalle riletture, per i molteplici significati che in essa albergano.