La Cerimonia del Tè: la forma e la sostanza nella kalokagathìa giapponese

 

 

di Pasquale Amoruso

 

La multa per chi viene beccato a fumare per strada, in Giappone, è di mille yen, poco più di sette euro, e nessuno lì fuma per strada, non per i mille yen, ma per evitare l’onta di ricevere una multa. La commessa che vi dà il resto alla cassa del supermercato vi porgerà la banconota con entrambe le mani, chinando la testa e alzando la banconota verso di voi. In un paese dove ogni comportamento, o quasi, è scandito da tradizioni antiche, dove l’onore è il patrimonio più prezioso da intaccare, qui la forma è la sostanza e l’abito fa tanto il monaco, che basterebbe un semplice sarto a nominare vescovi e cardinali.

 

Se dovessimo scegliere un’unica esibizione sociale giapponese, un unico cerimoniale che rappresenti la fusione di questi due aspetti, tanto antitetici da noi in Occidente, decisamente sarebbe il Cha No Yu, la cerimonia del tè.

“La casa del tè” di Koishikawa

Definire con precisione cosa questo rito sia, cosa rappresenti e l’importanza che ha nella cultura nipponica, partendo dalle concezioni occidentali, non è semplice: proprio come accade per la lingua, se leggessimo la cerimonia con l’alfabeto della cultura occidentale, tutto ciò che vedremmo sarebbero strani gesti scarabocchiati. Bisogna sempre tenere a mente che in Giappone la forma è la sostanza, che c’è identità tra significante è significato. Solo così riusciremo a comprendere che il punto della cerimonia del tè non è servire una tazza di tè, bensì servire una tazza di tè.

Se un bambino di sei anni ci fermasse per strada e ci chiedesse: “Signore, sto per salire sull’autobus, cos’è la cerimonia del tè?”, ripresi dal panico iniziale, potremmo rispondergli che è un rito con cui il padrone di casa offre una tazza di tè agli ospiti che sono venuti a trovarlo, tentando di preparare la bevanda nel più perfetto dei modi, in segno di rispetto.

Sì, perché per questo popolo la perfezione è la più alta forma di rispetto, verso sé e verso gli altri, e tutto in questo rituale vi tende.

Un ideale talmente alto che il padrone di casa offre il tè, ma non e lui a prepararlo, per paura di sbagliare qualche passaggio, rischiando di offendere l’ospite. Si affida a un Maestro del Tè: uno studioso, un artista, un sacerdote del tè che ha dedicato a questo rito la sua vita, nello studio dei movimenti, degli strumenti, dei suoni di questa cerimonia, cercando di raggiungere la perfezione nell’esecuzione.

Assistere alla preparazione del tè da parte di un maestro è un’esperienza ieratica, a metà tra un rito religioso e uno spettacolo di danza: ogni movimento, ogni passaggio in questa cerimonia è ritualizzato, il gesto con cui il maestro piega il tovagliolo, quello con cui poggia il mestolo di bambù sul suo supporto, la quantità di polvere di tè da mettere nella tazza, il numero di volte in cui batte il cucchiaino di bambù sul bordo della tazza, dopo aver  dosato il tè, la velocità con cui fa girare il frullino nella tazza per mescolare acqua e tè. Tutto è frutto di anni di pratica, di secoli di tradizione e nulla, nulla, nulla di questo rituale è improvvisato. Tutto tende alla perfezione. La stessa scelta del tè come bevanda per il rito è un ideale di eccellenza: il tè ha il colore della giada, simbolo di perfezione.
È ossessivo, è maniacale, è il manifesto di un paese in cui non è importante il significato di un gesto, ma il gesto stesso.

La forma è la sostanza e la più grande dimostrazione di questo concetto è che il tè preparato durante la cerimonia, almeno per me, fa schifo: una brodaglia calda che dà di erba amara.

È un rito vecchio di secoli e nei secoli rimasto immutato, perciò il tè che viene preparato aderisce al gusto antico, troppo antico per piacere anche oggi.

Ma il punto è proprio questo: non è far bere all’ospite un buon tè, ma omaggiarlo di una preparazione tanto accurata secondo la tradizione, riservargli tanta diligenza verso la perfezione che la bevanda trascende dalla sua funzione fisica e diventa solo un mezzo. A questo punto non stai più offrendo del te, stai offrendo il tuo impegno, il tuo sforzo, il tuo onore.

Ora, sarebbe presuntuoso e offensivo liquidare in poche battute un rito tanto antico e articolato. Lo prendiamo come esempio dell’affascinante identità tra forma e sostanza nel Paese del Sol Levante; una sorta di kalòs kai agathòs giapponese: ciò che tende al bello non può non essere buono, non può non essere vero. Una kalokagathìa, sì, ma molto diversa dalla concezione occidentale e con cui l’Occidente non potrebbe mai confrontarsi. Figurarsi poi integrarla e farla propria, se da questa parte del mondo la forma serve a occultare la sostanza per renderla più accettabile. Che debbano passarti il loro biglietto da visita o che debbano suicidarsi, per i giapponesi ciò che importa è l’onore, il rispetto di sé e dell’altro attraverso la perfezione dell’esecuzione. La perfezione è come l’orizzonte: puoi tentare di raggiungerlo e questo si allontanerà sempre, ma il tentativo di raggiungerlo serve ad andare avanti.

“Ciò che tende al bello non può non essere buono, non può non essere vero”

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