Falsi d’Editore
di Gino Dato
editore – Progedit
L’editoria è un campo minato nel quale, potremmo dire con il Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale, “le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete”.
In qualche modo gli editori nascono come maghi che prospettano e delineano balugini di un futuro, ma che, in corso d’opera, finiscono con il diventare – se non fare – i falsari, perché vilipendono la loro moneta preziosa, i libri, e la svendono come metallo, o – il che sta meglio – come carta.
Il paradosso che ci duole descrive una condizione di limite e di sfida dell’estremo che l’editoria persegue nonostante i grandi sforzi che gli operatori del settore compiono, unitamente agli addetti ai lavori e a coloro che nella loro vita sono prima o poi assaliti dal virus della lettura.
Ma il mercato svilisce tutto e anche le idee vanno sottoposte alla dura legge delle economie, senza delle quali una casa editrice non cammina. Né può illudersi, la stessa, di tenere i conti come se fosse una fondazione o un istituto di beneficenza.
Quanti siamo i falsari in giro? Quanti i venditori di parole che giocano sul senso dell’essere e sul senso della vita?
Il processo di consunzione di una idea e di mondi possibili si realizza in corso d’opera, già mentre un progetto si costruisce, estenuato nei passaggi dei diversi attori competenti alla lavorazione editoriale. Un mondo che si schiude vinee manipolato e ricondotto alle necessità dell’editore e della sua impresa, ai gusti del suo pubblico e dei suoi autori. L’autore idea e scrive, trasferisce all’editore che chiosa e lima e riscrive. Il lavoro poi passa in un format diverso e in una veste grafica e materiale che non sempre restano fedeli all’idea primigenia.
Il libro che era forse non sarà. E poi i libri si devono confrontare con i libroidi, oggetti che hanno sembianze del più nobile antenato, del quale tuttavia, come dice la stessa parola, presentano la forma, ma non la sostanza. I libroidi sono la velenosa merce che, grazie a editors e editori intraprendenti, invade le librerie e corrompe la più nobile ascendenza. I libroidi sono i discendenti del papiro e lo snaturano perché se ne producono milioni di copie. Non esprimono in genere filosofie, ma sono l’esternazione o il pensiero di qualche personaggio che ha raggiunto la notorietà delle vette in discipline, dalla politica allo sport, con una predilezione tuttavia per lo spettacolo.
Nella epifania editoriale che frulla verità e menzogne, infine, un rilievo assume l’evento, anche qui non sostanza ma epidermide della letteratura, che è marchiato da un alto grado di contagiosità, tanto da invadere ormai le piazze e diventare una sorta di must. Ogni amministrazione, piccola o grande che sia, deve avere il suo Festival del libro e della lettura, senza che, per la verità, questi ultimi possano avvantaggiarsene in termini di abitudine.
La semplificazione già di per sé produce una merce ambigua, che deve affrontare un altro momento essenziale di metamorfosi dei significati, cioè il confronto con il pubblico. Ed è qui che, ancora una volta, verità e menzogna si scontrano perché un altro crivello terribile diventa la cosiddetta “sospensione dell’incredulità”, o sospensione del dubbio. L’espressione suspension of disbelief venne coniata da Samuel Taylor Coleridge in un suo scritto del 1817: consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche verso un’opera allo scopo di ignorare le incongruenze e goderla dimenticando per scelta razionale che è una finzione, una costruzione. Insomma, se restiamo estasiati e rapiti è perché l’opera creativa produce un mondo che reale assai spesso non è, che non riproduce i canoni quotidiani, ma verso la quale il lettore o lo spettatore mostrano attenzione.
La sospensione del dubbio tuttavia viene nell’opera stampata immersa in un bagno di realismo che è in primo luogo il catalogo dell’editore, poi l’apparato di vendita e di distribuzione che svilisce ed estenua tutto il potenziale creativo ed immaginifico nelle dure leggi del mercato.
Ma che importa? In fondo noi ci troviamo nell’età delle fake news e quindi dobbiamo soggiacere al grande processo di verificazione di quanto ci circonda, comprese le opere che produciamo.
Pur dopo la sospensione dell’incredulità, non ci accorgiamo che stiamo restringendo i campi di verità – si fa per dire – alla echo chamber, che è esattamente la cassa di risonanza dei pensieri e delle interazioni che affidiamo ai social, la nostra vera casa. Quando pensavamo di aver raggiunto la globalizzazione, in realtà gli algoritmi ci avevano già catalogati e ristretti in gruppi selezionati in base ai gusti e alle tendenze che manifestiamo, per cui l’ìllusione del reale e dell’universale diventa la nostra tana vitale.
Sempre più legati. Sempre più dipendenti da protesi digitali. A riprova, una ricerca negli Stati Uniti ha mostrato che ogni giorno un bambino di 9 anni passa circa 7 ore su uno schermo di qualche tipo. E crescendo la situazione non cambia perché è evidente che anche l’esistenza degli adulti si sviluppa in misura crescente in un mondo che è completamente online, dal lavoro agli affetti, dal tempo libero all’acquisto di servizi. Negli ultimi anni, ci siamo sempre più abituati alla capacità dei media di costruire e presentarci un mondo più piacevole e convincente di quello vero. Un mondo privo di difetti e problemi. E se il mondo che attrae maggiormente è quello che si trova dentro gli schermi, tende a sparire nelle persone la necessità di vivere direttamente le proprie esperienze. Così, nel corso del tempo, la realtà fisica viene progressivamente sostituita da quella artificiale prodotta dai media.
Questo fenomeno si definisce il “tramonto della realtà”. Si tratta di uno degli effetti più significativi prodotti dai media, soprattutto i media maggiormente in grado di offrirci rappresentazioni della realtà realistiche e coinvolgenti, a cominciare da Internet. Abbiamo paura di fare esperienze reali, perché non vogliono correre il rischio di rimanere deluse rispetto a quel mondo perfetto che incontriamo all’interno dei media.
Non presenta inconvenienti e promette di poter esercitare un controllo totale. In realtà, si tratta di un’illusione, perché chi controlla i media non sta da questa parte dello schermo, ma dall’altra. Soprattutto, quello che accade è che la vera realtà sociale c’è ancora e prima o poi è necessario incontrarla, con tutti i suoi drammi e le sue problematiche.
I nostri occhi proni sui touchscreen… il nostro corpo ridotto a protesi… l’uomo abbandona la posizione eretta e si fa ammaliare dalle strumentazioni digitali. Metafora di una mutazione genetica? Sappiamo da tempo che la principale funzione svolta dai media nella società non è quella relativa alla trasmissione delle informazioni, dei suoni e delle immagini, ma quella che tende a modificare il modo di sentire e il gusto personale. Ogni medium esercita nella società degli effetti che dipendono dalle sue caratteristiche di funzionamento e sono poco dipendenti dai contenuti dei messaggi trasmessi. Ne deriva che i media, poiché sono delle protesi che estendono e trasferiscono all’esterno delle funzioni svolte da organi di senso, sottraggono tali funzioni al corpo umano, che viene dunque a essere “amputato”.
Che cosa ci attende? Un futuro di “Insieme da soli” per riproporre il titolo della psicologa Sherry Turkle? Internet ha successo oggi perché riesce a collegare gli individui tra loro, ma contemporaneamente anche a mantenerli in una situazione di isolamento. Riesce cioè ad evitare i problemi derivanti dai rapporti con gli altri. Non è un caso infatti che il successo dei social network dipenda anche dal fatto che questi generano delle presenze fittizie. Non sono persone in carne e ossa con i loro problemi e verso cui ci si sente responsabili, ma per lo più delle entità fragili e che possono essere facilmente rimosse soltanto schiacciando un tasto. Sherry Turkle ha mostrato che proprio per questo motivo oggi gli esseri umani tendono a preferire il rassicurante dialogo con i computer a quello meno controllabile con gli altri esseri umani.
In tale cornice che cosa sono le postverità e quale valore assumono? Come sosteneva Umberto Eco, tutta la comunicazione dev’essere considerata una forma di menzogna e i media devono pertanto essere visti come degli strumenti adatti per esercitare l’arte della menzogna. Sono soprattutto i social network, a causa della loro natura economica basata sulla necessità di avere dei flussi di comunicazione che circolano velocemente e senza incontrare ostacoli, a essere particolarmente adatti a sviluppare e diffondere la post-verità.
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