di Enzo Varricchio

 

“Poiché è in grado di acquisire e mettere in evidenza un senso globale di viva speranza, di ribaltare governi e saggezza convenzionale, di combinare le più antiche tecniche con le più moderne tecnologie per accendere una luce sulla dignità umana e, infine, di guidare il pianeta verso un più democratico seppure talvolta più pericoloso cammino nel XXI secolo, il Manifestante è il personaggio dell’anno 2011 di TIME”.
RICK STENGEL, EDITORE di TIME

 

Londra. A Trafalgar i bimbi intonano canti natalizi e i turisti scattano le foto di rito. Nella City tutto sembra normale, nonostante la crisi trabocchi dalle pagine dei giornali e Cameron abbia strappato con l’Europa per evitare che Francoforte rubi il primato alla finanza londinese. I noglobal sono accampati nelle tents sul piazzale antistante la cattedrale di san Paolo e i grandi magazzini sfavillano più che mai.

Sulla facciata dei magazzini Selfridge, l’orologio della statua alata, la Queen of Time, segna le nove del mattino.

 

La dea alata dei magazzini Selfridge di Londra

 

Un vecchio mendicante di colore suona il piffero, per essere precisi un whistle irlandese, così male da attirare l’attenzione dei passanti. Non ha le gambe ma ha cervello. Lo vedono insufflare allegro nel suo fischietto e gli lanciano qualche spicciolo nel cappello. Ieri un bobby lo ha multato per accattonaggio. Dura lex sed lex. A Londra è vietato essere disperati, o almeno mostrarsi tali in pubblica piazza.

Anch’io sono di nuovo qui, davanti all’ingresso del grande magazzino. Ho in testa un passamontagna giallo con un buco dietro, addosso un giubbottone puzzolente color caki, jeans logori e macchiati di una vernice rosso sangue, ai piedi delle clarks antidiluviane, trascino una vecchia borsaccia di materiale indefinito. Sarah e  Mark sono conciati più o meno alla stessa maniera. La retroguardia ci riprenderà con i cellulari.

Entriamo. Gli altri vanno su; a me tocca il piano terra: beauty department, il lusso come forma di dovere. Ho tre minuti a disposizione per il mio piccolo show. Le signore mi scansano infastidite.

Mi fermo al reparto trucchi e comincio a provarmi dei rossetti, allorché vengo arpionata dalla prima commessa: «Signora, posso aiutarla?».

Farfuglio, sputacchiando: «No grazie.».

Si allontana, garbata, ma mi tiene d’occhio.

Quando comincio a scartare delle matite, non può fare a meno di intervenire di nuovo.

«Signora, non è consentito aprire le confezioni. Se mi dice ciò che le interessa, la aiuto io.».

«Le ho detto che non ho bisogno.».

Balbettando frasi sconnesse, continuo a scartabellare tra costosissimi eyeliner come se stessi rovistando nella spazzatura.

La commessa chiama la security. In pochi secondi c’è un capannello di gente e i buttafuori in abito scuro che mi invitano garbatamente a uscire.

Thomas sta riprendendo tutto.

E’ il momento.

Balzo su una poltrona di pelle bianca dove si accomodano le clienti per il maquillage. Con un movimento sinuoso, mi sfilo gli scarponcini e i calzettoni, esibendo una caviglia perfetta e i miei piedini laccati di smalto. Un brusio di sorpresa.

«Ora basta, scenda di lì immediatamente!».

«Non azzardarti a toccarmi.».

«Chiamo la polizia.».

Mentre lui chiama la polizia, io mi sono già tolta il giubbotto, i jeans, et voilà. Ho la quarta da ventenne e le gambe lunghe lunghe da pallavolista. Via anche occhiali e passamontagna e, con il precipitare vaporoso dei miei capelli rosso fuoco, il brusio degli astanti esplode in un fragoroso applauso. Vedo la mia immagine nuda riflessa in un grande specchio sulla parete di fronte: la statua alata dell’alchìmia sulla barca lunare di Iside, la regina del tempo, sono io.

Anche Mark deve aver fatto un buon lavoro, almeno a giudicare dalle urla scandalizzate che provengono dal primo piano. Lo chiamano Mazinga per le dimensioni abnormi del suo pene.

Sarah è in piena azione. La mulatta, grazie ai suoi trascorsi circensi, sotto lo sguardo ipnotizzato della clientela, sta scivolando come madre natura l’ha fatta da una fune ancorata a una specie di carrucola che ha montato all’ultimo piano dello store department. Sventola uno striscione con il nostro messaggio:

“NO BEGGING LAWS AND POWER IN PUBLIC SPACES – acTV” –

John sta trasmettendo tutto in diretta on line.

E’ andata. Sono già fuori, scalza e avvoltolata nel giubbotto. Come puzza. Me l’ha prestato Teo, il barbone che vive sotto casa. Spero che anche gli altri facciano in tempo a squagliarsela tra la folla prima che arrivi la polizia. Getto la parrucca nel cestino dei rifiuti. Stoppo il primo taxi e filo via, incrociando lo sguardo del pifferaio che mi sorride. Ripongo le lenti a contatto viola nell’astuccio. So che presto mi prenderanno, fa parte della lotta. Il punto è quando.

 

C. Monet, Waterloo-Bridge-Hazy-Sunshine-1903

 

Ufficialmente, sono una studentessa italiana a Londra con l’Erasmus. Vengo da Benevento e vivo qui da quasi un anno. Sto approfondendo la pittura inglese della fine dell’Ottocento: i “Preraffaelliti”, una strana confraternita di artisti ribelli capeggiati da un oriundo italiano che voleva tornare a dipingere alla maniera che si usava prima di Raffaello. Li hanno definiti “I Sex Pistols del diciannovesimo secolo” perché rifiutavano ogni convenzione borghese, come il gruppo punk di Sid Vicious e Jhonny Rotten negli anni Ottanta.

Ogni giorno telefono ai miei genitori e ogni volta li sento più preoccupati. Non riescono a mandarmi nemmeno un centesimo. Mio padre è in cassa integrazione e mia madre continua a lavorare in nero nel tarallificio vicino alla stazione. Monti ha presentato la manovra “tedesca” che darà il colpo di grazia all’Italia e alla loro vita. Non ho bisogno del loro danaro ma non posso dirglielo.

Sono una Protester. Da quando il Time lo ha eletto personaggio dell’anno 2011, la parola “Manifestante” si scrive con la lettera maiuscola e il contestatore è diventato una categoria umana a parte. Sono stata a Roma il quindici ottobre, a Zuccotti Park un mese dopo e poi, con i miei amici di corso, tra i quali Sarah, Mark, Thomas e John, ho creato “AcTV”, alias Action TV, il nostro canale Web dedicato a ogni forma di rivolta pacifica contro lo stato delle cose. Non ci limitiamo a documentare. Noi stessi diamo vita a varie iniziative come quella di Selfridge. La lotta a ogni forma di povertà è uno dei nostri cavalli di battaglia. Però, nel nostro blog c’è di tutto. Dalle foto dei bambini di Fukushima ai bilanci delle società farmaceutiche, dai dati sugli OGM al signoraggio delle banche, dalle lobby ebraiche che controllano l’alta finanza al riciclaggio della mafia. Poi, c’è molto spazio per la stampa alternativa e per le organizzazioni come lo Zeitgeist Movement cui appartiene Hamid, il mio boyfriend tunisino, arrivato qui con la “Primavera”. Loro sono per l’abolizione della moneta e stanno preparando la “Prima Conferenza di Occupazione Mondiale”, che darà vita a un nuovo sistema politico-economico gestito col voto diretto tramite Internet. E’ buffo: anche loro vogliono creare un nuovo ordine mondiale, lo stesso scopo dei loro nemici.

Io, invece, non credo ai movimenti ma solo alle persone. I movimenti possono sembrare buoni anche quando le persone che li muovono sono cattive e viceversa. Le persone no, puoi guardarle in faccia e capire con chi hai a che fare. Sono brava a scrutare l’animo delle persone. L’ho imparato scrivendo racconti. Sì, brevi racconti sulla gente che incontro. Ho cominciato quando avevo dieci anni e ne ho scritto uno al giorno. Uno per ogni personaggio significativo. Li chiamo “Lampi” e hanno per titolo un numero progressivo: lampo numero uno, due, lampo tredici, quarantaquattro, centoventinove… Ora ho smesso. Non ci sono più lampi nella mia vita.

Sto scrivendo un romanzo, un economic thriller. Ezra Pound aveva ragione: l’economia è l’argomento più letterario del momento. Tutto gira intorno alla triste signora: i bisogni primari prendono il posto delle emozioni e dei sentimenti e, quando i bisogni insoddisfatti si trasformano in rabbia, scoppia la guerra, il più appassionante dei racconti, con le sue vittime e i suoi eroi.

Il mio romanzo si intitola “Protesto ergo sum” ed è la storia di questa guerra.

Il taxi mi lascia davanti a un negozietto di abbigliamento su Brook Street. Finalmente posso togliermi questa schifezza di dosso. Scelgo l’abito giusto per il prossimo appuntamento. Capelli raccolti dietro con un fiocco, maglione a collo alto, gonna larga di pizzo, cappottino stretto in vita con un bottone bianco, scarpe a zeppa. Tutto nero tranne il bottone. Biancheria anche stavolta decisamente minimale. Saluto le commesse ammirate e con la metro raggiungo l’hotel.

Il Savoy allo Strand è stato ristrutturato di recente, con una spesa di duecentoventi milioni di sterline, ma conserva il fascino dei tempi d’oro, quando ospitava Chaplin, Sinatra, John Wayne e la Monroe.

Attraverso la front hall in stile edoardiano col pavimento di marmo a scacchi e raggiungo la stanza 618 in ascensore.

Apro con la tessera magnetica che lui mi ha dato.

«Sono io, sono Dolores».

Nessuna risposta. Scrosciare d’acqua.

La vista sul Tamigi e il London Eye è decisamente incantevole ma i pastelli di Monet mi fanno venire i brividi. Non so se è più reale il Waterloo Bridge che vedo alla finestra o quello appeso alla parete. Che cos’è più reale? Un oggetto o l’impressione che ci lascia dentro? Una persona o i sentimenti che proviamo per lei? L’amore vuole tempo, come il pittore che cerca di fissare sulla tela il suo fluire, scandito dal cambiamento della luce. Posso immaginare ciò che provava Monet quel gelido gennaio del 1901 che trascorse in questa stanza a tradurre coi pastelli ad acqua l’immagine che gli occhi  trasmettono all’anima. Ne dipinse in tutto ventisei, mentre attendeva l’arrivo della valigia con le tele e i colori ad olio. Poi scrisse alla moglie Alice: It is thanks to my promptly-made pastels that I saw what I had to do.

“Ho visto ciò che devo fare”.

Anch’io sto cercando di vedere che cosa devo fare; per questo ho bisogno di esercizio. E di tempo, per osservare i cambiamenti della luce, delle cose che essa illumina.

Seguo il rumore dell’acqua fino al bagno. Si sta facendo la doccia. Mi spoglio senza fare il benché minimo rumore fino a quando il mio corpo incontra il suo sotto quella pioggia calda che ci fa tornare indietro di millenni, a quando i cavernicoli si accoppiavano fradici e bisunti sommando nuovi orgasmi a quelli della caccia, mescolando i loro umori al sangue ancora fresco delle prede.

E’ il nostro terzo appuntamento ma non so come si chiama. Mi paga duemila sterline per ogni incontro ma non è per questo che ci vengo. E’ che mi piace ogni volta di più. Ho studiato il mio anonimo cliente. Sulla quarantina, camicia bianca, abito nero e cravatta viola – look del banchiere – niente documenti né carte di credito nel portafogli, il signor Nessuno è un bruttino attraente dai modi raffinati e dal fisico prestante, che parla un ottimo inglese ma non fa domande. E, soprattutto, non ne vuole.

«Oggi per me è una giornata importante.».

«Anche per me.”.

«Devo incontrare una persona.»”.

«Io debbo sostenere un esame.».

«In fondo anch’io.».

«Allora, buona fortuna.».

«Buona fortuna anche a te.».

Esce. Io devo attendere una decina di minuti.

Non so se lo rivedrò più. Non abbiamo mai un appuntamento. E’ così dalla prima volta.

Aspettavo la metro a Charing Cross per andare a Orpington da Hamid che fa il cameriere in un ristorante italiano. Avremmo dovuto trascorrere insieme il week-end.

Stavo leggendo una ristampa di “V per vendetta”, il fumetto di Alan Moore considerato la bibbia dei black blocks di mezzo mondo.

Ma ho smesso qui.

 

PIC: Claude-Monet-Waterloo-Bridge-5-1902

 

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