La verità su Bari Vecchia
Pubblichiamo la lettera del presidente dell’Archeoclub di Bari, dr. Antonino Greco, in merito all’articolo di SM e alla missiva da lui indirizzata il 22/11/2019 alla Soprintendenza archeologica di Bari (allegata)
https://www.scriptamoment.it/2020/01/31/tesori-segreti-o-nascosti-lopen-source-delle-soprintendenze/
Caro Direttore,
Ti invio copia della mia comunicazione fatta pervenire via PEC e raccomandata a mano sia alla Soprintendenza che al Comune di Bari.
Il caso di Piazza San Pietro è, come accennato al telefono, esemplare sia per le modalità di svolgimento dei lavori di realizzazione e di risistemazione della piazza che per tutte le implicazioni di carattere procedurale e burocratiche.
Ovviamente dopo oltre un mese non mi è pervenuto alcun cenno di risposta o di presa visione e, fino a oggi, nulla si conosce ufficialmente dei resti archeologici delle antiche mura cittadine e nessuna comunicazione è stata prodotta sulla stampa in ordine a tali importanti rinvenimenti, casualmente (?) intercettati negli scavi.
Il fatto si presta ovviamente a molte considerazioni e impone più di una riflessione.
In primis il rilascio del permesso di nulla osta da parte della Soprintendenza, per la realizzazione di un’opera pubblica su un terreno già di interesse archeologico noto e di conclamato interesse storico documentario.
Piazza San Pietro è ben conosciuta dagli studiosi del settore ed i risultati di precedenti scavi sono ben noti anche a tutti gli appassionati di antichità per le ricche testimonianze archeologiche di cui si ha notizia certa e documentata già a partire dai primi anni del XX secolo.
Non a caso infatti il Gervasio ne fece oggetto attento delle sue esplorazioni documentando, con i suoi scavi, il notevole e straordinario patrimonio archeologico presente nel sottosuolo dello spazio antistante (Piazza San Pietro) l’edificio del vecchio Ospedale Consorziale, oggi trasformato nell’edificio occupato dalla polizia di Stato.
Nel nuovo Museo Archeologico di Santa Scolastica campeggia su una parete una grande gigantografia che testimonia un momento di detto scavo con la scoperta di tombe grandi sarcofagi.
Una seconda questione, correlata a quanto in o velare la visibilità dei luoghi in cui si svolgono delle attività di scavo.
Nulla osta ovviamente ad impedire l’accesso al cantiere, per motivi di sicurezza, ma non si comprende e non è affatto accettabile la “ratio” di nascondere le operazioni di ricerca e di recupero dei materiali. Tale, ormai consolidata, consuetudine di precludere la vista di scavi o saggi su terreni di proprietà pubblica o privata, non credo possa essere dettata, scientemente o colpevolmente, da scopi non del tutto trasparenti.
Precludere ai cittadini persino la vista dei luoghi archeologici in cui si riporta alla memoria il nostro passato che, quando intercettato, emerge lentamente negli scavi costituisce una pratica deplorevole.
La ”giustificazione” la si cerca nella necessità di non intralciare i successivi studi, che non vedo ostacolati solo dall’osservazione diretta, sia pure curiosa fatta a distanza, dai cittadini.
Una pratica dunque immotivata, non trasparente né democratica che sottrae il bene culturale o archeologico anche dai temi di eventuali dibattiti inerenti la tutela e la fruizione, che impedisce la richiesta di legittime informazioni, che nega l’utilizzo dei dati rivenienti dalle attività di scavo, spesso effettuate con danaro pubblico, direttamente o indirettamente finanziate dai cittadini che vengono, non si sa perché e con quale autorità, esclusi dal godimento del bene recuperato di cui normalmente si perde traccia e memoria.
Si moltiplicano così i casi di cantieri di scavo perimetrati quasi fossero postazioni militari, con reti dalle fittissime maglie o con costosi sbarramenti visivi di ogni tipo (griglie, tavolati, murature prefabbricate ecc), tutto per impedire, non si comprende il perché, di osservare le operazioni di scavo.
Proprio il tema dello scavo rappresenta una ulteriore insoluta questione che implica spesso condizioni complesse di gestione pratica che quasi sempre si intrecciano con la mancanza di risorse e la solita burocrazia.
Già perché ad effettuare lo scavo deve necessariamente essere un soggetto pubblico ovvero un funzionario della Soprintendenza, compatibilmente con i suoi doveri d’ufficio, le sue attività istituzionali, le incombente amministrative.
Una procedura, quella attuale, a mio parere del tutto anomala rispetto al quadro di riferimento generale che regola le attività professionali, perché proprio di questo si tratta. Funzionari pubblici che rivestono il ruolo di professionisti specialisti in archeologia.
Che senso ha dunque la formazione di migliaia di specialisti archeologi, presenti oggi nel nostro Paese ? ; Quale giustificazione di corsi di laurea promossi da Università e Scuole Universitarie di specializzazione che continuano a “sfornare” inoccupati senza futuro?;
Come una tale moltitudine di specialisti, formati ad una nobile professione, potrà sperare di poter svolgere un “mestiere”, per il quale si sono lungamente preparati ma che oggi è già impropriamente occupato da chi dovrebbe svolgere attività prevalenti di tutela, conservazione e valorizzazione?
Ancora oggi agli Archeologi non viene riconosciuto il titolo abilitativo professionale e men che meno gli si riconosce il diritto e la competenza a svolgere direttamente, in qualità di liberi professionisti, attività di scavo e di recupero archeologico sia pure in un quadro regolatorio che preveda attraverso norme specifiche la supervisione ed il controllo di tali attività.
In pratica si verifica al momento che professionisti o ricercatori, anche specialisti, di riconosciuta competenza non possano esercitare alcuna attività se non, nel migliore dei casi, “per conto terzi”, assumere ruoli di manodopera supplente.
Solo al funzionario di Soprintendenza è concesso di effettuare scavi, procedere a recuperi di beni archeologici, documentare acquisizioni, assicurare la conservazione. Attività questa che viene svolta notoriamente in carenza di organico, in mancanza delle necessarie risorse, in tempi dilatati ed estenuanti.
Ad oggi non si registra alcun tentativo di superare tali oggettive difficoltà né a valutare le incongruità del sistema.
Per contro aumentano i casi di sottrazione clandestina del Patrimonio e quelli di conflittualità tra interessi pubblici e privati per le lungaggini burocratiche, inefficienze, contenziosi ecc a scapito della tutela e della valorizzazione.
Ritengo dunque necessario ripensare totalmente il sistema con una seria e reale riforma strutturale e funzionale del Ministero dei <<beni culturali e delle sue articolazioni periferiche (Soprintendenze) cui va affidato un esclusivo ruolo di controllo e di verifica di attività progettuali svolte dagli attuali Archeologi specialisti che possono con competenza e responsabilità assolvere al primario compito dello studio e del recupero del reperto o del bene culturale, collaborando poi alle successive fasi di tutela, salvaguardia e valorizzazione.
Agli Archeologi professionisti dunque va assegnato il compito ed il ruolo per il quale sono stati formati e preparati: progettare gli scavi, effettuare il recupero,
promuovere con tutti gli altri possibili soggetti, pubblici e privati, (Enti, Imprese, Società ecc), d’intesa con le Soprintendenze la diffusione informativa, la conservazione, la tutela ed ove possibile la fruizione.
Professionisti specialisti dell’archeologia la cui attività permanentemente soggetta, come avviene per ogni altra specifica attività professionale, al monitoraggio e controllo degli Enti strutturalmente collegati al Ministero dei Beni culturali, già attualmente presenti sul territorio quali strutture periferiche.
Potrebbe forse essere questa una riforma epocale capace di riattivare un vero nuovo ed efficace ruolo propulsivo alle Soprintendenze offrendo loro strumenti in grado di guidare lo sviluppo delle attuali nuove tendenze e nuove sensibilità in materia di tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali.
Una riflessione infine sul ruolo dell’Associazionismo culturale non profit come forma di volontariato a supporto della divulgazione e della conoscenza del nostro immenso Patrimonio.
L’attuale condizione del mondo associativo, relegato in forma subalterna a supplire ad una mancata politica di promozione diffusa tra i cittadini del valore fondamentale del patrimonio culturale, deve necessariamente trovare una sua nuova collocazione istituzionale ed un riconoscimento formale dei compiti fondamentali assegnati anche dalle più recenti normative del terzo settore.
L’associazionismo culturale fa della divulgazione, della conoscenza e della fruizione un valore civico, di crescita sociale, da sviluppare in collaborazione tra Enti Istituzionali che devono garantire forme snelle, leggere ed agevolate di fruizione del bene.
Meno burocrazia dunque, forme più libere di partecipazione ai beni comuni con utilizzo di strutture spesso inutilizzate, valorizzazione locale di luoghi e siti archeologici spesso ignorati, valorizzazione delle conoscenze specifiche di realtà territoriali nelle quali operano le Associazioni di scopo.
Rivedere il ruolo Associativo e riconsiderare compiti propri del volontariato che può diventare per le strutture istituzionali periferiche del Ministero dei BC, una concreta realtà di mediazione a sostegno di ogni iniziativa, attiva, di tutela.
Il volontariato non supplisce alle carenze di organico né sostituisce specifiche professionalità ma si affianca ai compiti istituzionali delle strutture periferiche del Ministero per sostenere progetti o attivare ricerche a carattere specifico nel campo dei beni culturali.
L’associazionismo culturale aggrega interessi comuni che intendono sviluppare conoscenze e approfondimenti tematici e trova una sua specifica dinamica esercitando responsabilmente azioni dirette a promuovere forme di partecipazione consapevoli e condivise di conoscenza e divulgazione.
PIC: Bari Vecchia vista dall’alto, Drone, You Tube
https://www.youtube.com/watch?v=rVwQMN3LjDo