Quelle grosse grasse Fake News
di Giovanni Ventrelli
Fino a qualche settimana fa attendevamo famelici le notizie al tg delle 18.00 sull’andamento della “curva dei contagi”, con il temutissimo bollettino della Protezione Civile sul numero dei nuovi casi, dei deceduti e dei guariti.
In quelle settimane il nostro fabbisogno informativo si è concentrato sul fenomeno pandemico, un tema forte composto da messaggi impattanti.
Fondamentalmente un set comunicativo che ci ha provocato forti emozioni. Iper-emozioni.
In un linguaggio più comune, queste iper-emozioni si traducono nel fenomeno del sensazionalismo, dove i destinatari del messaggio, gli spettatori-lettori, sono sollecitati negli aspetti più emotivi, andando a soddisfare bisogni istintivi attraverso effetti di spettacolarizzazione. Le grandi storie che catturano l’attenzione dell’intera opinione pubblica sono imperniate su questa reazione collettiva di livello cognitivo basico, viscerale. Resterà, ad esempio, impressa nella memoria l’immagine delle fosse comuni scavate a New York, create per seppellire l’incredibile numero di deceduti da Covid-19 nella prima fase della pandemia americana. Nessuno o quasi, però, ha specificato che quelle fossero, in molti casi, solo sistemazioni provvisorie e “di passaggio” per una più regolare sepoltura in aree cimiteriali tradizionali. È passato il messaggio delle fosse comuni, certamente più della ragione per cui sono state scavate. Per questo, le “iper-emozioni” possono essere generate in positivo o in negativo, in verità o in menzogna. Come accade da sempre nell’etologia umana, scienza che spiega il nostro comportamento. Su questo binario, germoglia il territorio delle fake news, che combinate in un sistema di Big Data possono ottenere risultati devastanti. In positivo, ma anche e soprattutto in negativo.
Ma cosa sono le fake news, come riconoscerle?
In italiano la traduzione letterale è «notizie false».
Le fake news si caratterizzano di messaggi con toni e contenuti forti, sensazionalistici appunto. Sono notizie ingannevoli, parziali o manifestamente false, divisive, e in quanto tali capaci di rafforzare l’opinione di chi vuole far dominare il proprio punto di vista su quello degli altri in «luoghi virtuali e fisici».
Per quali ragioni vengono create le fake news?
Ci sono generalmente due ordini di motivazioni: quella politica, soprattutto da parte dei mandanti, e quella economica, soprattutto da parte dei creatori e diffusori.
Nella sua campagna elettorale del 2016, Donald Trump si è dotato di una imponente “macchina” di comunicazione digitale, composta da specialisti della creazione di contenuti a profondo impatto emotivo. Utilizzando queste tecniche, il tycoon ha effettuato un clamoroso recupero sull’avversaria Clinton battendola sul filo di lana e conquistando lo studio ovale. I dati sulla valutazione del “sentiment” dei due candidati (un indice di misurazione delle conversazioni sul web) hanno più volte confermato questo straordinario spostamento di voti, dovuto proprio all’innovativa strategia digitale del team Trump. Se non fosse, però, che i metodi utilizzati per raggiungere quel risultato siano poi diventati oggetto di un procedimento giudiziario a carico del management di Cambridge Analytica, la società organizzatrice della campagna di Trump, per aver violato i dati personali di ben 30 milioni di utenti Facebook al fine di modellare l’elettorato potenziale con le tecniche dell’analisi psicografica, riuscendo così a suddividere gli elettori in categorie di soggetti con caratteristiche e attitudini psicologiche ben precise. È evidente come conoscere i ragionamenti e la psicologia della persona a cui si deve comunicare un messaggio, sarà un vantaggio enorme per tarare i contenuti da indirizzargli. Solo in questo modo si può “colpire al cuore” il destinatario per ottenerne il consenso, renderlo un sostenitore e, in molti casi, una specie di “avvocato del popolo”, in grado di influenzare il giudizio di altre persone vicine. In poche parole, un metodo di efficacia clamorosa, mai vista sinora. Ma a quale costo etico? Agire per manipolare il consenso superando i confini della privacy a piene mani, può essere giustificato da chi e da cosa?
A livello economico, invece, un contenuto “virale”, nella fattispecie una notizia sensazionale o ingannevole, genera moltissime visite sui siti web in cui la stessa è pubblicata. Immaginate ora se il proprietario del sito web in questione ospitasse spazi pubblicitari su queste pagine! Quegli spazi pubblicitari riceverebbero evidentemente un maggior numero di clic da parte degli utenti. Il mondo della pubblicità online funziona generalmente con il criterio del “pay per click”, dove l’inserzionista paga per ogni clic ricevuto sul suo banner o inserzione pubblicitaria. Si moltiplichi la potenza di questo meccanismo per milioni di clic e si otterrà un numero, un valore economico, in molti casi a cinque o sei zeri. La pubblicità digitale, a livello mondiale, rappresenta un mercato di circa 650 miliardi di dollari, praticamente quanto il Pil della Svizzera. In Italia, secondo AGCOM, immigrazione e terrorismo hanno segnato la maggiore presenza di “fake news” sul totale dei contenuti online, configurandosi come temi “acchiappaclick”.
E, quindi, come fare per difendersi dalle fake news? Come riconoscerle e come smascherarle?
Questo è diventato, oggi, un vero e proprio lavoro, una nuova professione digitale.
Si chiamano “fact-checker” e sono i professionisti dello smascheramento di una notizia falsa o tendenziosa. Il “fact-checking” è la pratica che ogni professionista dell’informazione deve eseguire per assicurarsi la veridicità delle proprie fonti. Controlli incrociati, dichiarazioni autografe o fonografiche (telefoniche, ad esempio), verifiche secondarie su fonti autorevoli o ufficiali (archivi, uffici stampa istituzionali, pagine web di organismi di settore) sono solo alcuni dei metodi di verifica di una notizia che un giornalista può utilizzare. Questo metodo di controllo è oggi reso molto più difficile con il web, che è un inesauribile fonte di dati. Sono denominati appunto “Big data” per la loro incredibile numerosità, che li rende difficili da analizzare ed elaborare, e soprattutto da controllare. Immaginiamo, ad esempio, di dover verificare tutte le menzioni sul web delle ultime 24 ore sull’associazione di parole “coronavirus + vaccino”. Ne troveremo diverse migliaia solo in lingua italiana. Controllarle tutte è una missione impossibile, oltreché inutile. I tempi di verifica di una fonte devono essere rapidi, poiché le notizie hanno quasi sempre un tempo di validità e scadenza molto breve. In Italia, al momento, sono tantissimi i siti di fact-checking con redazioni organizzate e squadre di fact-checker sempre all’assalto delle bufale, come ad esempio il visitatissimo Open (www.open.online) o il quotidiano online di Luca Sofri (www.ilpost.it), che si è specializzato in questo tipo di attività.
Controllare questi siti prima di dare per vera una catena social o un post di Facebook che vi ha colpito è un sano modo di informarsi al giorno d’oggi, in una selva intricata di byte senza inizio e senza fine. Prima di inoltrare e condividere un contenuto ad un contatto, piuttosto che su una pagina social, fermatevi un attimo e chiedetevi se siete sicuri al 100% della veridicità di quell’informazione. Se non lo siete, controllatela, cercatela sui motori di ricerca, navigate sui siti di fact-checking. Solo così gli effetti devastanti delle fake news potranno essere limitati. I big data sono come uno tsunami incontrollabile, nessuna legge riuscirà mai a limitare il numero di contenuti web falsi e tendenziosi. Ma, soprattutto, solo così tuteleremo la nostra libertà e la nostra democrazia. E il nostro diritto alla verità.