Defemministizzare Artemisia Gentileschi. Il saggio di Varricchio e Latrofa in occasione della mostra londinese
di Enzo Varricchio e Manuela Latrofa
Dopo la grande esposizione di Gand, Artemisia Gentileschi è di nuovo in mostra alla National Gallery di Londra dal 4 ottobre al 24/01/2021.
Artemisia è molto trendy e alquanto pop. Non c’è pittrice al mondo più conosciuta di lei, purtroppo non tanto per le sue opere straordinarie quanto per la triste storia di stupro subìto e denunziato, che ne ha fatto una delle più citate icone del femminismo insieme alla sua collega novecentesca Frida Khalo, vittima dello stesso pregiudizio che ne ha oscurato l’arte per sfruttarne la biografia.
Il caso di Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 1652? o post 31 gennaio 1654) è forse il più emblematico da trattare nell’ottica del presente saggio, cioè quella della separazione critica del mito femminista dal valore oggettivo di Artemisia (e delle singole artiste in generale), tanto è preponderante nel suo caso il dato biografico stereotipizzato rispetto alle connotazioni estetiche e stilistiche della pittrice seicentesca, come si è avuto modo di evidenziare già in nostri precedenti scritti.
https://www.scriptamoment.it/2018/09/01/una-storia-dellarte-defemministizzata-perche-no/
Va detto che la critica sta cominciando a cogliere questa nostra tesi “defemministizzatrice”. In occasione della mostra, il quotidiano New Yorker ha pubblicato un ritratto rivisitato di Artemisia Gentileschi, che getta nuova luce sul personaggio e sul suo percorso di vita.
“La pittrice pioniera è sopravvissuta a uno stupro, ma ora gli studiosi stanno lavorando contro l’idea che il suo lavoro ne sia stato orientato, celebrando invece il ricco sfruttamento della maternità, della passione e dell’ambizione”. Come dire, dietro l’arte della pittrice romana c’era molto altro che lo stupro.
Lo violenza carnale subita da Agostino Tassi, pittore amico del padre Orazio e maestro di prospettive al quale era stata artisticamente affidata, il processo coraggiosamente da lei affrontato, la conquistata libertà di vivere e di agire come donna e come artista, il suo celebre motto
“”Mostrerò a Vostra Illustre Signoria cosa può fare una donna”
a partire dal Novecento ne hanno fatto in innumerevoli mostre e studi un’eroina, vera e propria figura di culto, simbolo della sofferenza e della lotta per l’emancipazione femminile, se non addirittura per la parità di genere.
E’ però giunto il momento di ridare alla pittrice ciò che è suo, secondo ciò che Artemisia ebbe a progettare e realizzare: trasformare un evento tragico della propria esistenza in un trampolino di lancio verso la fama come artista, ben lungi tuttavia dall’immaginare di essere immortalata come eroina dell’emancipazione femminile. Parlare della Gentileschi in questi termini, cioè come sorta di stereotipo, non significa soltanto anteporne la vita alla produzione, ma vuol dire anche giudicare un evento avvenuto in un’epoca lontana con paradigmi moderni … lo stupro nel Seicento non aveva la stessa connotazione che gli viene attribuita in età contemporanea… Se oggi a buon diritto è gravissimo reato e specifica «metafora dell’oppressione sessista», ai tempi di Artemisia talvolta non era neanche visto come una forma di aggressione personale; era soprattutto un disonore per il padre della vittima, tanto che fu il padre a querelare il Tassi e non la vittima che non ne era legittimata.
Al tempo dello stupro (1611), Artemisia aveva già diciotto anni e, per quei tempi, era donna da marito e matura anche come pittrice (nota 1); per un anno convisse more uxorio volontariamente con lo stupratore visto l’iniziale impegno di un matrimonio riparatore e, solo dopo aver saputo che quegli era già sposato, lo fece denunziare. La Gentileschi non aveva alcuna coscienza femminista e con tutta probabilità lottava non per la parità delle donne del Seicento ma per la sua dignità e libertà personale oltre che per desiderio di giustizia.
Un altro nodo cruciale della vita della Gentileschi è il rapporto con la figura paterna, un rapporto ambivalente sul quale però Artemisia ha la possibilità di radicare la propria personalità di artista riconosciuta nel suo talento. Lo stupro per certi versi rappresenta paradossalmente per Artemisia l’opportunità, il Kairòs per distanziarsi dalla figura paterna invischiante, individuarsi ed affermarsi come artista e come persona, lasciare Roma e i pregiudizi, entrare nelle grazie della società fiorentina, sposarsi con un uomo scialbo da poter dominare, scoprire la propria femminilità e passionalità, viaggiare per seguire la committenza, insomma autorealizzarsi.
Artemisia descriverà dettagliatamente la dinamica della violenza subita, soggiacendo nel corso del processo a ispezioni ginecologiche in pubblica piazza e persino alla tortura (era un mezzo per testare la sincerità dell’accusatrice), pur di veder condannato il suo carnefice. Il fattaccio si consumò nell’abitazione dei Gentileschi a via della Croce, complici Cosimo Quorli furiere della camera apostolica e l’ancella, una giovane vicina di casa della ragazza, tale Tuzia.
«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne».
Questa scena dell’evirazione parziale del violentatore ricorda singolarmente la scena di Così parlo Zaratustra di Nietzsche in cui il pastore stacca di netto con un morso la testa al serpente che gli si era infilato in bocca nel sonno, sputa la testa, si rialza e comincia a ridere. “Non più un pastore, non più un uomo — ma un rinnovato, un illuminato, che rideva!”. Dopo la sevizie subita anche Artemisia si rialzerà trasformata. E’ vero che dovrà subire l’onta delle maldicenze romane, vera beffa di un processo vinto solo nella forma ma perso nella sostanza, ma da esse troverà la forza per trasferirsi a Firenze e lì ricominciare una vita nuova.
Alla luce di tutto ciò, risulta anacronistico attualizzare tale vicenda piegandola a esigenze contemporanee, quando lo scopo della Gentileschi era tutt’altro: dipingere.
“Dipingere e difendere la propria onorabilità sociale, non diventare la grande pittrice della guerra dei sessi” (Guido Almansi). “Un pittore di talento come la Gentileschi non può limitarsi a un messaggio ideologico” (Elisa Menichetti).
Certamente la scelta del soggetto di Giuditta che decapita Oloferne (nota 2) al museo Capodimonte di Napoli (1612-1613) è la metafora della vendetta: l’atto del tagliare la testa è altamente simbolico e sancisce implicitamente la sconfitta del potente. La testa è il centro del nostro essere, la sede del cervello e questo fa di essa il simulacro del potere. In chiave freudiana (nota 3), la decapitazione rappresenta la concretizzazione di un terrore atavico dell’uomo, l’angoscia di castrazione. La pittrice eseguirà tre versioni dello stesso soggetto… forse un incubo notturno ricorrente da elaborare a livello psichico con il pennello e la tavolozza, oppure un episodio biblico gradito ai committenti?
Tuttavia, non può sfuggire che il soggetto biblico di Giuditta e Oloferne era già stato affrontato da Caravaggio nella tela a Palazzo Barberini (1598-99 circa) e, nello stesso periodo di Artemisia, sarà affrontato dal fiorentino Cristofano Allori (Giuditta con il capo di Oloferne, 1613 a Palazzo Pitti) e da molti altri pittori (nota 4), dunque quell’episodio biblico cattolico (nota 5) classico era tornato di moda all’epoca, a prescindere da qualsivoglia rielaborazione psichica ed esistenziale della Gentileschi.
La versione di Artemisia al museo Capodimonte tiene conto in modo evidente dell’opera caravaggesca (con Michelangelo Merisi da Caravaggio, attivo a Roma durante la sua formazione, la Gentileschi aveva avuto rapporti almeno tramite il padre). In Caravaggio, l’ancella, vecchia e malefica, si limita a osservare la scena del taglio della testa tenendo uno straccio in mano in cui si immagina che dovrà essere contenuta; in Artemisia invece l’ancella Abra è giovanissima (forse raffigura quella Tuzia, vicina di casa, che aveva permesso lo stupro a vittime invertite) e collabora attivamente alla cruenta decapitazione. Nel primo, Giuditta si ritrae inorridita dal suo stesso gesto, in Artemisia la fanciulla resta insensibile e distaccata dinanzi a quel “giusto crimine”, quasi un boia nell’esecuzione della pena o un macellaio con un suino da scotennare.
Non c’è ombra di dubbio che mentre nel fenomenale maestro lombardo la grandezza del quadro è ancora una volta nell’incredibile chiaroscuro, nell’opera di Artemisia, che pure ha pienamente appreso la sua lezione sulla luce, prevale la crudezza del gesto in un impressionante dinamismo e realismo della scena col generale assiro-babilonese che, in un estremo gesto, cerca di afferrare per la gola la serva che lo trattiene mentre Giuditta, appostata di lato, con un gesto chirurgico gli affonda la lama nel collo facendo attenzione a non schizzarsi di sangue l’abito di seta pregiata. La disposizione verticale delle figure, rispetto alla omologa tela caravaggesca in cui si pongono di lato, accentua il senso di trionfo della virtuosa vedova israelita contro la barbarie del gigante ubriaco.
Questa Artemisia è quella pittrice che il padre magnificava nella lettera alla granduchessa di Toscana e che la fama di artista l’avrebbe meritata a prescindere dalle vicende personali. Questa pittrice è pienamente consapevole delle evoluzione dell’arte pittorica a lei contemporanea e dei soggetti graditi alla committenza.
Nel 1618-1619 tornerà sul tema in Giuditta con la sua ancella, conservato nella Galleria Palatina di Firenze, opera anch’essa che annovera varie repliche (nota 6). Qui, le due figure femminili di Giuditta e dell’ancella Abra sono raffigurate in una posizione quasi speculare, rischiarate da una luce di candela. Le due donne si stanno allontanando dalla tenda di Oloferne, con la testa del guerriero nella cesta del bucato e la paura di essere scoperte dai soldati assiri. Insospettita da un rumore esterno, Giuditta esita trattenendo con una mano l’ancella mentre nell’altra poggiata alla spalla impugna ancora la spada. Di rara maestria l’ampio turbante ed il vestito dell’ancella, giocati sulle varie tonalità del bianco e del giallo.
Anche quest’opera trova la sua ispirazione non in un ricorrente incubo da metabolizzare ma in un preciso repertorio ereditato dal padre e adoperato dai colleghi pittori del suo tempo.
Infatti, “Giuditta e l’ancella”, è un quadro di Orazio Gentileschi, del 1608-09, replicato nel 1610-1612, che mostra esattamente la stessa scena. Vieppiù, padre e figlia assieme già nel 1610-1612 avevano raffigurato questa scena nella tela ora ai Musei Vaticani.
A tale soggetto Artemisia rimase legata a lungo, visto che ancora tra il 1625 e il 1626 si data l’ultima ”Giuditta e l’ancella”, al Detroit Institute of Arts Museum. Qui Giuditta è ormai una guerriera che ha vinto la battaglia, la spada è ben salda e pronta alla difesa propria e dell’ancella. Con l’altra mano, l’eroina d’Israele oscura la candela per non farsi scoprire ma proprio la luce della candela la illumina e immortala le due complici del delitto. L’ancella infagotta alla bella e meglio la testa mozza del nemico. Il realismo della scena è fotografico, il dinamismo dell’azione resta sospeso in un attimo di eternità: un capolavoro assoluto di una grande pittrice meritevole di memoria imperitura. Giuditta è ormai padrona del campo quanto Artemisia ha trovato la propria dimensione e maturità di artista.
Un altro quadro è stato spesso considerato – per evidente errore – il frutto della coercizione maschilista verso Artemisia: “Susanna e i Vecchioni” del 1610.
Il soggetto è tratto dall’episodio biblico di Susanna, fanciulla leggiadra e moralmente irreprensibile, ricattata da due anziani giudici ebrei che riescono a introdursi nel suo giardino sorprendendola mentre fa il bagno. Per carpirne le grazie, la minacciano di accusarla di averla sorpresa con un giovane amante. Visto il rifiuto opposto da Susanna, la trascinano in tribunale per adulterio. L’innocente viene condannata a morte mediante lapidazione, ma a questo punto si fa avanti il futuro profeta Daniele che la difende dalle accuse e riesce a scagionarla, rivelando l’inganno ordito due vecchiacci.
A primo acchito sembrerebbe che il quadro sia stato ispirato dalle vicende personali di Artemisia ma così non è, o almeno, non del tutto.
Già la data, antecedente all’episodio di stupro, lo pone fuori dalla dinamica psicologica dello stesso. La modalità di raffigurazione dei due uomini apre uno spiraglio interpretativo ed una possibile attribuzione proiettiva all’opera. I due vecchioni non sono poi così anziani, uno dei due addirittura presenta una capigliatura corvina che dimostra un’età meno avanzata. Si ipotizza che il dipinto possa raffigurare il complesso rapporto che Artemisia stava sperimentando con la figura paterna e con il Tassi. La presenza ingombrante dei due uomini nella sua vita e i sentimenti percepiti si sviluppano nel quadro come un presagio dei fatti successivi verificatisi (la violenza subita e il crudele processo). Ma quanto il nostro modo di guardare tale quadro è influenzato dalla conoscenza dei fatti successivi avvenuti nella vita dell’artista?
Artemisia è riuscita a trasformare una vicenda biblico-didascalica di natura moralizzante in una tela carica di potenza espressiva tale da costringere lo spettatore a coinvolgersi con stizza in questo sopruso rivolto ad una disarmata fragilità. La vita di Artemisia, i suoi vissuti e moti interni non possono essere scissi dalla sua produzione artistica, in essi trasmette la propria risonanza emotiva, il proprio punto di vista, ma non solo.
La scelta del tema, ad esempio, non riguarda la sua vicenda personale, ma risponde alla moda del tempo, alle opere più commissionate e maggiormente riprodotte da grandi artisti già affermati, con cui compararsi.
A partire dai primi decenni del XVI secolo il tema di Susanna e i vecchioni era stato fin troppo sperimentato: da Lorenzo Lotto (1517), Jacopo Bassano (1536 e 1585), Alessandro Allori (1561), Tintoretto (1555 e 1557), Paolo Veronese (1580), e anche da Annibale Carracci nel 1603 (nota 7). Non di rado questo soggetto pedagogico si trasformava in una vera e propria scena di nudo e di erotismo, come nel caso dell’Allori, del Tintoretto e del Carracci, nelle cui raffigurazioni i due vecchiacci abusano fisicamente della giovane atterrita allungando le loro mani sul giovane corpo discinto e indifeso.
Non dimentichiamo che la committenza artistica proprio in quel tempo si era andata laicizzando affiancandosi a quella ecclesiastica quella delle collezioni private delle famiglie aristocratiche. La castità e fedeltà della Susanna cinque-seicentesca è paradossalmente celebrata attraverso raffigurazioni femminili di forte sensualità.
I signori del tempo potevano permettersi così di ospitare un quadro lascivo nella propria galleria con l’alibi di una rappresentazione biblica. Insomma, ancora una volta il soggetto non è il frutto di una esperienza personale dell’artista ma costituisce una vera e propria sfida ai pittori uomini suoi contemporanei. Artemisia vuole emanciparsi come pittrice, viaggiare, incontrare altri maestri con i quali cimentarsi e in questo sì che il carattere e la biografia personali entrano in gioco.
È importante notare come la Susanna del 1610 di Artemisia Gentileschi è sicuramente meno docile ed indifesa della Susanna rappresentata dal Carracci nel 1603, che addirittura ricerca con lo sguardo al cielo, l’intervento di un’entità superiore che la salvi dalla sgradevole situazione. Nello sguardo di Susanna, Artemisia riesce a intrappolare tutta la tempra e il vigore di una donna adirata e allibita, indifesa solo dalla contingenza della sua nudità in un momento privato.
In un’altra versione del 1622 alla The Burghley House di Stamford, non c’è più traccia di timore né rabbia nel volto di Susanna ma qualcosa di simile a un distacco ascetico: la donna Artemisia si è identificata totalmente con la sua arte, si è trasfigurata quale musa immortale tra le muse.
Ogni artista lascia traccia di sé nelle opere che realizza, è proprio la capacità di immergersi nei propri vissuti emotivi, nel proprio dolore e di trasferirlo su un oggetto esterno a sé a rendere quell’opera e quell’artista magnetica, coinvolgente, perturbante. Nelle sue realizzazioni pittoriche Artemisia non rivela esclusivamente i suoi traumi ma trasmette il suo carisma e la sua forza trasformatrice, il suo essere protagonista della propria vicenda personale ed artistica.
Rileggendo la sua biografia è lecito chiedersi come abbia fatto a non restare invischiata, a non “fissarsi” in termini freudiani, sulle vicende traumatiche subite (la morte prematura della madre, lo stupro, l’inganno dello sfumato matrimonio riparatore, l’umiliazione pubblica nel processo, la perdita di tre figli) e inutilmente cercare di scaricarne la tensione, riproducendo nella sua vita situazioni mortifere che le riproponessero la stessa ferita subita.
Se quel Tassi non fosse stato sposato, Artemisia, come le donne del suo tempo, avrebbe subìto l’idea di sposare un uomo che l’aveva presa con violenza e sarebbe stata relegata al suo ruolo convenzionale di donna di casa, dedita al marito e ai figli, con la passione per l’arte, una “casalinga estrosa” nella migliore delle ipotesi ma non una grande artista quale invece divenne.
Per le vicende e per la sua grande personalità Artemisia riesce ad attivare la propria resilienza, non lasciandosi sopraffare dagli eventi, riuscendo a far leva su alcune tracce di benessere presenti nella propria vita, al di là dei traumi. La sua buona autostima ha sicuramente contribuito a tale processo, consolidata in età infantile ed adolescenziale da una figura paterna supportiva e presente, anche troppo, e da un probabile rapporto genitoriale di coppia positivo.
È un’artista che riesce a prendere dagli eventi, ad alimentarli, ad accettare favori nei momenti di difficoltà, a sviluppare rapporti autentici, a coinvolgersi e a coinvolgere, a concedersi amori passionali, raggiungendo la piena realizzazione di sé come una vera imprenditrice della propria arte. Sembra che il dolore fluisca in lei come un evento naturale, che può verificarsi nel proprio percorso di vita, dal quale non si difende, che non nega e non reprime, anzi lo attraversa e lo trasforma dissolvendolo in consapevole espansione di sé.
Note.
1 Dalla lettera che il padre Orazio inviò alla granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612 si apprende che la figlia in soli in tre anni di apprendistato (1606-1609) aveva raggiunto una competenza equiparabile a quella dei principali maestri.
2. Oloferne era un generale babilonese dell’esercito di Nabuccodonosor che imperversava per la Giudea. Giuditta, donna giudea famosa per la sua intelligenza, si introdusse nell’accampamento fingendo di aver tradito il suo popolo per compiacere il nemico e profittò dell’ubriachezza del condottiero per decapitarlo, lasciando l’esercito avversario privo di comandante. L’episodio biblico è citato anche da Dante Alighieri che lo scambia per assiro (Divina Commedia, Purgatorio, canto XII, vv. 58 – 60).
3. In Psicologia della vita amorosa, Freud citò la figura di Giuditta come una di quelle donne la cui verginità è protetta da un tabù, facendo riferimento ad una tragedia di Friedrich Hebbel che dava per non consumato il suo primo ed unico matrimonio.
4. Solo per citarne alcuni: Giuseppe Cesari, Cavalier d’Arpino, “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1605-1610, olio su tela, Berkeley Art Museum, Berkeley, Giovanni Baglione, “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1608, olio su tela, Galleria Borghese, Roma, Giovan Francesco Guerrieri, “Giuditta e Oloferne”, 1615-1618, olio su tela, Banca Popolare dell’Adriatico, Pesaro, Carlo Saraceni, “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1618 ca, olio su tela, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze, Lionello Spada, “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1618-1619, olio su tela, Galleria Nazionale, Parma, Domenico Fiasella, “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1626, olio su tela, Musei Civici di Novara.
5. Il libro di Giuditta Bibbia è un testo della Bibbia cattolica assente dalla Bibbia ebraica e considerato apocrifo dalla tradizione protestante.
6. La prima “Giuditta e l’ancella” della Gentileschi, 1611-1614, è alla Collezione Lemme, Roma.
7. La tela lascia inoltre intravedere come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia stata indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci.
Il presente saggio ha scopo esclusivo di studio scientifico non lucrativo. Gli Autori sono disponibili a riconoscere eventuali fonti e autori delle immagini reperite sul web.