di Cosetta Potenza

insegnante

“Una società che abbandona bambini e anziani

 recide le sue radici e oscura il suo futuro”

Papa Francesco

 

Nel lungo corso della storia dell’uomo il concetto di “maturità” della vita ha subito profonde modificazioni.

“Il fenomeno ha coinvolto, ormai da decenni, la popolazione di tutti i paesi europei, facendo del ‘vecchio continente’ un ‘continente vecchio’”

Questa fase della vita, a cui ogni individuo desidera giungere serenamente ed in salute, ha attraversato la storia con alterne ed opposte fortune: rispetto, indifferenza, rifiuto, derisione, venerazione, assistenza sociale. Si tratta, per molti di questi, di atteggiamenti che traducono in azioni la paura, l’incomprensione ed il senso di impotenza, avvertiti nei suoi confronti.

Le società antiche, infatti, non dividono come noi l’esistenza in fasce; la vita comincia con l’ingresso nel lavoro e si conclude con la morte; gli anziani insomma non costituiscono una categoria sociale e vengono assimilati alla massa degli adulti. La loro condizione oscilla tra i gradi estremi ed opposti del rifiuto/umiliazione e del rispetto/venerazione a tal punto che, nei loro confronti, vengono adottate soluzioni pratiche differenti: alcune popolazioni li uccidono o li lasciano morire, alcune accordano loro un minimo vitale, altre assicurano loro una bella fine, altre li onorano fino al termine della vita.

Simone de Beauvoir, scrittrice e filosofa francese scomparsa nel 1986, sostiene che “la condizione del vecchio dipende soprattutto dal contesto sociale”.

L’anziano  é testimone di avvenimenti lontani, conosce riti e canti tribali, costituendo un legame della comunità al suo passato. Essere anziani  significa, anche, essere alle soglie della morte e rappresentare il mediatore tra questo mondo e l’altro. La vecchiaia, così come il male, il dolore e la sofferenza, ha trovato posto tra i grandi misteri attorno ai quali i greci si sono posti numerose domande, restate per lo più insolute.

Omero ricollega la vecchiaia alla saggezza; a Nestore, re di Pilo, il tempo conferisce esperienza, arte della parola, autorità, memoria collettiva di fatti ed eventi e conoscenza approfondita di come vanno le cose del mondo, ma non è lui, fisicamente decaduto, a condurre i Greci alla vittoria.

Esiodo(metà VIII sec.-VII sec. a.C.), nella sua Teogonia, propone una dettagliata genealogia divina nella quale i giovani si rivoltano contro i vecchi tirannici. Ad ogni generazione, gli anziani vengono spodestati dai figli.

La  semantica della Grecia arcaica associa alle parole che designano l’età avanzata, γέρα (“ghèra”) e γέρων (“ghèron”), l’idea di onore, di privilegio dell’età, di diritto di anzianità.

Il poeta Mimnermo alla fine del VII secolo a.C. la definisce odiosa, spregevole, deturpante, nebbia dei sensi e della mente, poiché priva l’uomo del suo θυμός (“thumòs”), l’organo vitale che comprende volontà, sentimenti ed emozioni, rendendolo un essere amorfo ed inerte.

Il poeta si dispera per il sopraggiungere dell’età e prova nostalgia per ciò che è stato: la giovinezza è fuggitiva come un sogno. “A un tratto le incombe sul capo la vecchiaia dolorosa e deforme, odiosa e spregevole a un tempo. Essa fa dell’uomo un perfetto sconosciuto e col suo velo gli acceca vista e intelletto”.

Anche Teognide di Megara ( fine VI sec. a.C.) esclama “ Mi rammarico della leggiadra giovinezza che mi abbandona, piango la gravosa vecchiaia che si avvicina”.

Pitagora fu tra i primi ad elaborare una teoria delle età della vita in corrispondenza delle stagioni, tema destinato ad acquistare popolarità anche nei secoli successivi.

Aristotele fissa la maturità fisica a 35 anni, quella dell’anima a 49.

I due maggiori filosofi greci adottano, anche relativamente alla vecchiaia, posizioni radicalmente opposte; Platone ne è il maggiore difensore, Aristotele il maggiore detrattore.

Pertanto solo gli uomini che hanno meditato sulle idee sono designati a governare. Non ne sono capaci, se non dopo un’educazione che deve cominciare dall’adolescenza e non porta pienamente i suoi frutti prima dei cinquant’anni. A partire da quest’età il filosofo possiede la verità e diviene il custode della città. La sua filosofia conduce Platone a non tenere conto del declino fisico, visto che la verità dell’uomo risiede nella sua anima, il corpo è solo un’apparenza e la decadenza dell’età non intacca l’anima.

Per  Socrate,  non è la vecchiaia, ma il carattere delle persone a fare la differenza: infatti , se si è equilibrati e disponibili, anche la vecchiaia è moderatamente gravosa; se invece no, a una persona del genere “è difficile tanto la vecchiaia, quanto la gioventù”. Aristotele sostiene una posizione del tutto diversa: la vecchiaia non rappresenta né una garanzia di saggezza, né di capacità politica.

L’impero romano, per quanto connotato da un carattere cosmopolita, è chiara manifestazione di una civiltà di derivazione  latino-greca. Questa dualità di origine contribuisce a conferire agli anziani un’importanza certa: nella vita politica e sociale per il privilegio che viene dal diritto latino, e nella vita culturale per i modelli derivanti dalla letteratura e dalla filosofia greca.

Seneca considera la vecchiaia in modo più equilibrato. Se essa diventa penosa, bisogna suicidarsi senza esitare: “La sobrietà può prolungare la vecchiaia: io non ritengo che la si debba desiderare intensamente, ma neppure rifiutare; è piacevole stare con se stessi il più a lungo possibile, quando ci si è resi degni di goderne”.

Negli ultimi cinquanta -sessant’anni del Novecento il concetto di età arriva ad assumere una valenza diversa rispetto al passato, per un sostanziale mutamento nella percezione del tempo e del suo fluire. La società è chiamata a rendersi conto che il soggetto anziano è un patrimonio vivente di esperienze vissute e provate, di saggezza trasmissibile, di valori e come tale deve essere portato a comprendere il presente, educato ad “accettare” la propria condizione e ad accettarsi in essa, a fare buon uso della sua “età”.

“Il raggiungimento della maturità diventa sinonimo di serenità e coscienza di sé, accettazione di sé stessi per quello che attiene alle relazioni sociali, alle prestazioni fisiche e mentali, al proprio stato di anzianità”

 

La “perdita” degli anziani equivale, allora, ad un grave vuoto per la società.  Essi non sono più un peso, bensì una “risorsa” importante per il Paese.

Lo sono stati in passato quando con sacrifici e impegno hanno, in maniera concreta, contribuito – il virgolettato è d’obbligo – “allo sforzo produttivo dell’ Italia” e ad una stagione di conquiste e di grande sviluppo economico e sociale.

Il confronto generazionale si presenta, in questo senso, come una ricchezza sociale…un invito alla scuola e agli enti delle città a creare e promuovere iniziative “per”, ma soprattutto, “con” gli anziani. Al di là del difficile momento di emergenza, l’incontro fra generazioni  mantiene, fra gli obiettivi principali, quello di favorire la solidarietà sociale e di generare una cittadinanza attiva in cui l’educazione intergenerazionale “diventa un ponte, un film protettivo che riveste le fibre delle reti sociali.

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