Divertimenti serissimi in Fa maggiore
di Francesco Mastromatteo
Violoncellista
Giocare con i suoni è forse il più comune approccio all’arte per ogni essere umano.
La semplice emissione dei suoni, il modo in cui i bimbi cominciano ad “educare” la voce, nasce in una dimensione ludica in cui la parola, o meglio i suoni emessi creano il loro mondo, la loro verità.
La nostra vita è attraversata dai suoni costantemente e, “giocare con la musica” significa imparare ad affrontarla dal lato giusto, a non disperderne la pienezza, ad aderire ad essa in modo totale, in ogni momento e dinanzi ad ogni situazione. La dimensione del gioco nell’infanzia non significa altro che la scoperta completa della vita e la musica preserva questa scoperta rendendola universale, lasciandole attraversare ed interpretare ogni età.
Basti un esempio per tutti: il “Divertimento” in musica è cosa serissima.
Lo è tanto da essere appunto un genere, in cui spiccano capolavori straordinari. Sarà W. A. Mozart a regalarci tre perle uniche come i Divertimenti K. 136, K.137 e K. 138, raggiungendo un apice di “felicità” artistica in cui l’immediatezza dei temi si lega a un discorso formale (ossia di definizione dei contenuti) quanto mai completo e di naturale scorrevolezza.
All’opposto Béla Bartók, uno dei giganti del Novecento musicale, nel suo Divertimento per archi, fugge dalla tragedia della seconda guerra mondiale e dell’esilio, provando a costruire un mondo ideale in cui il dolore venga riscattato da una purezza originaria, da un desiderio di riscoprire la propria identità, di “divertirsi”, nel senso di riscoprire la propria essenza, le proprie radici culturali, la comunione che lega tutti gli uomini, soprattutto dinanzi alle tragedie più grandi.
A partire da tali vette artistiche è opportuno scendere nel quotidiano delle esecuzioni ed affermare che “giocare” con i suoni è cosa serissima in ogni concerto e per ogni musicista.
Si tratta di una perenne creazione del mondo attraverso il gioco, di una regressione all’infanzia che apre le porte di una conoscenza emotiva sconfinata. Liberi di creare, di allontanarsi dal quotidiano (de/vertere appunto), divertirsi per avvicinarsi al centro del proprio essere.
Per ogni artista, salire sul palco, implica una sfida estremamente ardua: condividere la propria identità profonda senza veli, mostrarla perché attraverso tale condivisione, si possa creare un luogo di libertà emotiva, in cui chi siede nel pubblico, trovi la propria storia, il proprio essere. La tensione divora sempre l’artista nel momento del rivelarsi agli altri, ed è proprio il disincanto del gioco o l’adesione totale a questo divertimento “pubblico” che scioglie il nodo d’egocentrismo ansiogeno che tutti, artista e pubblico, abbiamo bisogno di vincere.
Non si gioca mai da soli e in questa condivisione ci si libera della parte oscura di noi stessi per aprirci alle relazioni e alla felicità del nostro essere con gli altri.
Tutte le volte che sono su un palco provo a devertere, entrando in suoni che sono un modo quanto mai vero, collettivo e plurale.
Un mondo che è presente e che, nello stesso tempo, è altro dalla realtà del quotidiano. Un mondo in cui si gioca con la stessa totalità dell’infanzia, con quell’impegno libero e assoluto delle corse con gli amici, di quelle in bicicletta e delle partite di pallone.
Certo, il panorama emotivo adulto ha una struttura diversa, tessuta non solo dalle gioie , ma anche dalle inevitabili sofferenze, dubbi, ferite subite o inferte. Una volta imbracciato il violoncello, l’adesione diviene totale e travolge in maniera profonda. E’ la libertà di essere il gioco più grande e vincente, che esiste solo se è una pluralità ad accoglierlo e ad esserne parte.
Così la lacrima che sfugge al risuonare di quell’accordo, l’immagine che ti attraversa su quel tema, lo slancio travolgente di quel virtuosismo provato mille volte, divengono patrimonio del divertimento, e dell’essere di tutti…
L’Arte che diverte e allontana dal quotidiano, dona la realtà più vera ed impalpabile a ciò che non vediamo. I suoni non hanno corpo, non sono di nessuno, si materializzano solo per abbandonare il presente e vivere nei luoghi immateriali della nostra anima.
I suoni donano alla vita, per dirla con Calvino, la leggerezza necessaria alla serietà del nostro esistere, sono le riserve creative con cui affrontiamo i dolori più grandi; sono la poesia con cui preserviamo l’infanzia che rinasce ad ogni nuovo giorno frutto di una condivisone che attraversa secoli e società.
Musicista “classico” per necessità, non riuscirei ad esistere senza Bach, Beethoven, Mozart, Verdi, Puccini, Debussy, Prokofiev.
In fondo, non si gioca mai da soli in questo gioco collettivo e rispettoso della musica, in cui si scopre cos’è l’essenza, cosa sono il sorriso e la lacrima che siamo e qual è la forza senza limiti della più vera libertà…