di Loris Castriota Skanderbeg

giornalista, storico ed esperto di araldica

loris castriota scanderbeg

Esistono in Italia comunità quasi contese tra due epoche: un presente moderno, globalizzante, travolto dai ritmi frenetici della società contemporanea, ed un passato lontano, affascinante, denso di valori storici e culturali che rappresentano un tempo passato ma che queste comunità vogliono preservare con ostinazione, consapevoli del proprio grande retaggio ed orgogliose delle proprie radici e della propria identità.

Questi mondi “sospesi nel tempo” sono le comunità “arbëreshë”, le isole etno-linguistiche che ebbero origine dalle numerose migrazioni storiche degli Albanesi che fuggivano dalle varie fasi dell’invasione del loro Paese da parte dell’Impero ottomano, tra il XV e il XVIII secolo.

L’Italia fu la meta preferita, per la vicinanza e per i rapporti millenari che hanno legato le due sponde dell’Adriatico: la stessa gente di Puglia discende dalla grande colonizzazione di tribù illiriche di Dauni, Peuceti e Messapi che giunsero da oltremare nel I millennio a.C., come illiri erano gli antenati degli Albanesi.

Per 25 anni, il grande condottiero e uomo politico Giorgio Castriota, soprannominato dagli stessi Turchi “Skanderbeg” (cioè, principe Alessandro, per paragonare il suo valore militare al Grande Macedone), aveva tenuto unito e guidato un esercito meno numeroso e peggio organizzato di quello dei Sultani in un’eroica resistenza che aveva salvato l’Italia e l’intera Europa dalle mire espansionistiche degli ottomani. Alla sua morte, nel 1468, gli Albanesi si disunirono e l’invasione fu inevitabile: avvenne allora la più massiccia diaspora verso il Mezzogiorno degli arbëreshë che furono accolti in amicizia dalla dinastia aragonese, grata a loro e a Skanderbeg per aver salvato la Cristianità dalla minaccia turca. I profughi ottennero terre spopolate da abitare e coltivare e esenzioni fiscali decennali, che li resero invisi agli “autoctoni”. I nuovi arrivati preferirono isolarsi, combinare matrimoni solo interni alla comunità, conservare con ostinazione la lingua, i costumi e le usanze, oltre alle memorie storiche tramandate oralmente. In una società priva di tradizioni letterarie, il canto fu fondamentale per mantenere e trasmettere la memoria di un passato glorioso.

Così, ancora oggi, in quelle comunità –sono 52 tra paesi e frazioni, per un totale di circa 100mila abitanti- troviamo parlate, usanze e costumi strettamente legati a quel passato. Un paradosso temporale che gli Albanesi moderni vengono a studiare per vedere come vivevano i propri antenati e che gli arbëreshë quasi sottovalutano, intuendone l’importanza culturale ma lasciando lentamente morire –per inutilizzo- la preziosa testimonianza di una lingua che è viva tra i più anziani e di costumi e canti sfoggiati solo dai gruppi folk.

Ricchezze che non solo gli arbëreshë ma gli stessi Italiani devono lottare per conservare, per scongiurare il pericolo della scomparsa di un’altra delle peculiarità del vario e ricchissimo panorama storico-culturale creato sul suolo italico dalla sedimentazione dai contributi culturali di tanti popoli che nello Stivale hanno trovato una splendida nuova patria.

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