Halloween, Ognissanti, giorno dei Defunti: antiche usanze nel mondo

 

di Enzo Varricchio

 

Da più parti in Italia si lamenta l’invasione della moda americana di celebrare Hallow’en, con tanto di esibizioni di mostri, scheletri e streghe, non consone allo spirito solare mediterraneo. Si dimentica che tutte le tradizioni vengono inventate attraverso processi di contaminazione culturale tra elementi autoctoni ed elementi provenienti da altre aree geografiche. A parte il gusto dell’orrido, che diede vita a tanta letteratura romantica e alimenta ancora buona parte della cultura “dark” europea, anche nella festa americana del 31 ottobre è dato rintracciare una pallida reminescenza dei riti propiziatori antichi, se non altro nelle questue organizzate dai ragazzi. Nelle sue manifestazioni più ingenue, il male viene esibito e ostentato per esorcizzare la paura della morte. Le maschere di zucca allontanano il rischio del prevalere del demoniaco, del capovolgimento dell’ordine del mondo.

I primi giorni di novembre segnano la fine di un anno agricolo e l’inizio del successivo. Una volta, nelle terre abitate dai Celti, nelle regioni settentrionali dell’Europa, in Pannonia e in Asia Minore, durante la prima decade del mese di novembre, si celebrava il Capo d’anno (Samuin  per gli irlandesi e Nos Galan-gaef,  “notte delle Calende d’inverno” per gli scozzesi), di cui la festa di Hallow’ en, celebrata oggi il 31 di ottobre in Irlanda e negli Stati Uniti, è solo un’eco sbiadita. Si aprivano le tombe e i morti si mescolavano ai vivi, i quali potevano visitare il mondo infero, a patto di rimanervi sino al Samuin   successivo. I cimiteri si adornavano di fragranze floreali per alludere ai profumi paradisiaci dell’aldilà. Si trascorreva la notte in una veglia caratterizzata da eccessi nel bere, nel suonare e nel cantare.

Gli eccessi costituiscono una manifestazione fondamentale dell’economia del sacro. “Spezzano la barriera fra uomo e società, natura e dei; aiutano la circolazione della forza, della vita, dei germi da un livello all’altro, da una zona della realtà a tutte le altre. Quel che era vuoto di sostanza si sazia; il frammentario si reintegra nell’unità; le cose isolate si fondono nella grande matrice universale” (Mircea Eliade, 1973).

I Celti usavano pure accatastare teschi, perché pensavano che il morto appartenesse, per un certo tempo, a entrambi i regni. Grazie  a tale suo stato transitorio, il cadavere profetizzava l’avvenire e proteggeva i vivi dagli eventi nefasti.

Fu l’episcopato franco, nel nono secolo dopo Cristo, ad istituire al 1° novembre la festa di Ognissanti, forse proprio allo scopo di “cristianizzare” il Capodanno Celtico. Tuttavia, sin dal III- IV secolo, la Chiesa orientale aveva già sentito l’esigenza di celebrare tutti i santi in un unica ricorrenza, che in seguito papa Sisto IV estese dal regno franco a tutta la Chiesa occidentale. Si festeggiava ogni anno il dies natalis   del santo, ovvero il giorno della sua morte e ascesa al cielo, la sua rinascita spirituale. A Roma il 13 maggio del 610, papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon alla Vergine Maria e a tutti i martiri, applicando la teoria  dei “furti sacri” escogitata da Sant’Agostino, una sorta di espropriazione legittima dei templi pagani.

La Commemorazione dei defunti, stabilita in una occasione specifica del calendario, ebbe origine nella chiesa bizantina e fu introdotta nella Chiesa latina nel secolo X dai monaci benedettini. Nel 998 sant’Odilone ordinò ai monasteri dipendenti dall’abazia di Cluny di far risuonare le campane con i rintocchi funebri dopo i vespri solenni del 1° novembre, prescrivendo ai cenobiti che l’Ufficio dei defunti andava celebrato in coro. “L’Anniversario di tutte le anime” (nome originario della festività) apparve a Roma per la prima volta nel secolo XIV.

L’usanza di commemorare i defunti, come quella di dedicare un giorno alla festa di tutte le divinità, non riguarda solo i Celti ma può dirsi universale e non ha mai avuto, se non nell’Occidente moderno, carattere triste e funebre. A parte il caso eclatante dell’Irlanda, paese europeo ove il giorno del 2 novembre si svolge ancora in gioiosa comunione familiare e sembrano violate le barriere tra i vivi e i morti, in diversa area culturale (in Messico), le feste di Todos los Santos  e del giorno dei Morti, si svolgono in un clima di analoga allegria. “Si preparano dolci di pane in forma di teschi e scheletri a significare che dai morti, dai semi sotterrati rinasce la vita, ovvero i morti che ci nutrono” (Alfredo Cattabiani, 1988).

Anche gli Etruschi credevano che non vi fosse un confine invalicabile tra la vita e la morte e imbandivano banchetti cui partecipavano simbolicamente i defunti. I Romani dedicavano sodalizi sacri  (Feralia e Parentalia)  ai loro Mani. Talora si creavano dei pupazzi o statuette che venivano mangiati in occasione delle commemorazioni. I primi cristiani pure erano soliti offrire banchetti funebri nel dies natalis   dei loro congiunti, sino a quando, nel secolo IV, la Chiesa li proibì, per la loro eccessiva somiglianza con i culti pagani.

Nel nostro Paese si mangiano ancora dei cibi che rammentano le “ossa dei morti”, tipici dolci di mandorla venduti il 2 novembre nelle pasticcerie sarde, sicule ed umbre.

Ancora oggi, soprattutto in Italia meridionale, è possibile rinvenire l’usanza di aprire una “porta con il mondo dei morti che ritornano”, naturalmente in modo simbolico. “La notte tra l’1 e il 2 novembre il popolo pugliese credeva che i morti uscivano dalle tombe per recarsi in processione presso quelle chiese dove erano soliti pregare durante la vita. Alcune donne lasciavano la finestra aperta per dare agio ai morti di entrare nelle proprie case.  Nessuno si alzava per non turbare il passaggio delle anime” (A. Pulice Lozito – Almanacco storico etnografico della Puglia,1997).

Rimangono ancora tracce del banchetto funebre di antica memoria. Le donne pugliesi di taluni comuni non sparecchiano la tavola e lasciano parte del pasto appena consumato  ai defunti. Questo rituale simboleggia il nutrire i morti per essere nutriti dalla loro forza, sempre presente e più manifesta all’inizio dell’inverno, al momento della semina, della penetrazione del seme nel buio invernale, nel mondo infero terrestre. Il Cristo disse ad Andrea e Filippo: “In verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”   (Giovanni12, 24-26). In particolare, si è soliti lasciare sul desco un’arancia, del vino e del pane. E’ tradizione che va scomparendo in Puglia quella di preparare il piatto tipico della “colva”, costituito da vino cotto, grano, melograno, noci, pinoli, acini d’uva, cannella, garofano, mandorle tostate, frutti naturali che simboleggiano il passaggio da un periodo agricolo all’altro ma rappresentano anche in senso figurato le parti costituenti del corpo umano e le ossa dei defunti.

Anche in Italia, dunque, sopravvivono le ultime vestigia di credenze millenarie, secondo le quali i morti portano la vita, oltre che i doni ai bambini. Le mamme siciliane raccontano ai figli che gli spiriti delle persone scomparse, durante la notte loro consacrata, si recano a visitare le dimore dei bimbi portando seco i regali.

 

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