di Enzo Varricchio

Sette concerti a Milano e quattro a Bari, tutti sold out. Da Nord a Sud, solo due città nel tour estivo di Vasco Rossi, per un oceano di fan e curiosi di rivedere il poeta pop maledetto nazionale almeno un’ultima volta prima del suo buen retiro, spesso ventilato ma sempre posticipato.

Tre ore di concerto su un palco fantascientifico e pirotecnico (anche troppo), con un medley di successi vecchi e nuovi che hanno letteralmente ipnotizzato e scatenato il suo pubblico, composto da anagrafi paurosamente distanti – dai nonni ai nipotini -, per non parlare della eterogeneità e trasversalità socioculturale della sua musica.

Fatto sta che Vasco, a Bari come a Milano, ha cantato e fatto cantare a squarciagola tutte o quasi le sue canzoni più belle, come se già fosse in odore di retrospettiva sulla propria carriera, ma è parso più vivo e vegeto che mai, se vogliamo ancora più incazzato, ora non più contro le convenzioni borghesi anni Ottanta degli esordi di “Ieri ho sgozzato mio figlio”, quanto piuttosto contro quei “farabutti che governano il nostro pianeta”, ha sentenziato allo stadio San Nicola , mentre alle sue spalle l’intelligenza artificiale creava immagini di scenari apocalittici, contrapponendole a raffigurazioni digitali di costellazioni e spettacoli naturali in connessione con la mente e l’anima umani. Tanto per strizzare un occhio alla modernità e l’altro all’Entertainment di massa.

 

 

Nonostante la sua consueta platealità, Vasco è un monumento nazionale che si rifiuta di essere musealizzato, un fenomeno che non a caso non ha mai travalicato i nostri confini, come d’altro canto gli altri cantautori: troppo italiano per sfondare all’estero, troppo disimpegnatamente impegnato e poco commerciale, con quel suo rock non troppo melodico né troppo strazzato, con i testi sincopati e pieni di doppi sensi.  O, semplicemente, troppo che non gliene è mai fregato niente di sfondare all’estero, dove è vincente la musica globalizzata tipo Maneskin o Pausini.

Meno poeta di De Gregori, meno intelligente di Battisti, meno intellettuale di Battiato, Vasco Rossi alla fine forse li batterà tutti nell’immaginario collettivo, con la sua cultura bassa ma concreta, con l’atavica assenza di ipocrisie nella sua lucida capacità di scandagliare l’anima di una prostituta, come quella di un drogato o di una depressa,  di ironizzare su se stesso e sul mondo con il realismo e la dolorosa consapevolezza di chi è parte di una  “generazione di sconvolti, senza più santi né eroi” (cit. da Siamo solo noi”, canzone italiana rock del ventesimo secolo per la rivista Rolling Stone) che ha generato quello odierno.

Ormai più con lo sguardo amorevole di un vecchio Casanova che osserva le nipoti, piuttosto che con quello di un libertino impenitente a caccia di conquiste, Vasco si rivolge alle ragazze delle prime file che ballano Rewind a seno nudo, ringraziandole tutte e gridando loro “Siete bellissime”, “Siete libere”, quasi a concelebrare un’emancipazione che, a suo modo e nel suo piccolo, ritiene di aver contribuito a fomentare.

 

I concerti di quest’anno potrebbero essere il canto del cigno del Blasco e della sua combriccola, ma potrebbero essere ancora un arrivederci, come ha promesso prima di dedicare a tutti gli spettatori un auspicio di commiato, con l’apparente sincerità di uno di noi: “Ce la farete, sono sicuro che ognuno di voi ce la farà”.

Sottinteso: “come ce l’ho fatta io”.

Più nazional popolare di così…

 

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