In Puglia a Bari Vecchia nella Chiesa di Santa Teresa dei Maschi il 20 e 21 settembre scorsi si è tenuto l’ “Apulian Hidden Heritage” (è ignota la ragione della scelta della lingua del titolo; titolo che ci saremmo attesi fosse in lingua locale di Bari Vecchia) che è stato un incontro-convegno incentrato sulla valorizzazione e utilizzazione dell’imponente patrimonio architettonico pugliese che, essendo stato inopportunamente affidato alle cure dello stato è caduto in rovina. Quindi servono soldi (molti soldi) e idee sul cosa farne. Hanno partecipato esperti, architetti, ingegneri, professori, cultori di cose antiche, storici,…
Molte le chiese e i luoghi di culto abbandonati e degradati di cui si è parlato.
Per noi cittadini cui tutto questo lavorìo sarebbe rivolto, il patrimonio artistico e culturale è cosa sacra. Esso descrive il decorso millenario della evoluzione della nostra identità che non è rappresentata solo dalle mitiche orecchiette con le rape e riso, patate e cozze ma anche e soprattutto dalla cultura, religione e tradizioni. Cose ben differenti tra di loro ma che spesso si tende a confondere. La valorizzazione di chiese e castelli, torri e opifici medioevali può significare banalizzarli -magari con un social housing- cioè trasformarli in asilo per indigenti che non hanno alcuna idea del dove si trovano. Queste vestigia o sono riconosciute contenitori di cultura e quindi di identità, oppure ne acceleriamo la fine considerandoli dei contenitori per esempio di alloggi per diseredati. Viene in mente una parte della vita dello storico Albergo delle Nazioni sul lungomare di Bari che dopo i fasti della sua giovinezza è stato per un lungo periodo affidato alla gestione degli enti pubblici locali che lo hanno degradato fino a farne una residenza per studenti. Si sa, la politica (specie di sinistra ma non solo) cerca i bisogni e se non li trova li crea; induce la gente a credere che la risposta a quei bisogni sia un diritto e quindi addebitano al bilancio pubblico le spese relative alla soddisfazione di tali diritti: questa è la “politica” di oggi. Così gli studenti sono andati a dormire in un posto che oggi debitamente e degnamente restaurato (dando lavoro a migliaia di persone) costa varie centinaia di euro a notte. Il suo cattivo utilizzo e degrado è stato realizzato dall’ente pubblico mentre il suo recupero e valorizzazione è stato attuato dai privati (sempre dopo aver superato i mille impedimenti posti dalle leggi e regolamenti vari imposti dallo Stato). Così oggi nel convegno di Santa Teresa dei Maschi si invocano soldi pubblici per recuperare queste strutture antiche e degradate proprio dall’incuria dello stato. Soldi che però dobbiamo mettere noi.
Forse andava fatto prima senza cioè arrivare a questo livello di degrado e quindi di costo per il suo recupero. Forse si deve cercare dentro la nostra identità il senso di questo recupero. Forse si deve sapere prima cosa farne e dopo stanziare soldi. Ma qui da noi conta più il recupero e quindi i soldi da spremere al contribuente che non la maggiore e migliore conoscenza della nostra identità e quindi del “chi siamo”.
Ma non poteva essere diversamente: per la “non-cultura” dominante i soldi sono universali, immediati, non hanno bisogno di studi e pensieri, mentre l’identità e il “chi siamo” è difficile anche solo da pensare e la televisione e i social ci hanno disabituato a pensare; non è più di moda: gli influencer così ci hanno abituato e così facciamo.
Così arriviamo ai giorni nostri quando una chiesa come un convento vengono visti come un luogo dove molto tempo fa persone che oggi ci sembrano invero un po’ strane, vivevano e pregavano per tutta la vita come fossero volontariamente in una prigione a scontare una pena a vita. Perché per noi quella vita assomiglia ad una pena e non certo a quello cui noi tendiamo. Oggi invece siamo nell’era della soddisfazione e del consumo quindi ci riteniamo più “avanti” e “moderni” e quel modo di fare appare privo di senso, una tradizione antica, inattuale, ormai niente più di un ricordo sbiadito come ricordo sbiadito è la lotta tra gladiatori in un circo latino. Non li capiamo.
Ma questo essere “moderni” slegati dal passato significa azzerare il chi siamo e la nostra identità considerandola alla stessa stregua di tutte le altre “moderne” anch’esse candidate a liquefarsi in una nuova non-identità planetaria nella quale uno vale uno e tutti stanno all’ingrasso fino a quando qualcuno un po’ più uguale degli altri non deciderà che siamo troppi o che siamo troppo vecchi o troppo malati e quindi dobbiamo togliere il fastidio; come peraltro accade in ogni allevamento bovino o suino o equino che sia. Peraltro gli scienziati e medici non ci hanno convinto che alla fin fine non siamo che degli animali; diversi dagli altri ma pur sempre animali? E come tali ci organizzano il futuro.
Il punto oggi è questo e la nostra religione ormai abbandonata anche da alcuni suoi ministri va riletta non certo come “tradizione” ma come maestra di vita e quindi componente primaria della nostra identità; religione non certo come confessione e ritualità ma come condensato di cultura sia elitaria che popolare e precisamente l’unica che, forte di un paio di millenni di pensiero, può cercare e trovare una propria novella strada per il futuro di tutti, anche di quelli che pur non essendo credenti o cristiani si interfacciano con noi.
Quindi dedicare gli antichi luoghi e architetture a scopi che nascondono la storia che è scolpita in loro è un suicidio vero e proprio per la nostra civiltà. C’è chi costruisce moschee e templi di ogni genere anche nelle nostre città per perpetuare non certo le proprie tradizioni ma le proprie identità; noi -meglio: i nostri “rappresentanti democraticamente eletti”- invece le lasciamo deperire o, ancor peggio le distogliamo da una destinazione all’altezza della cultura che le ha generate.
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