“Parthenope” di Sorrentino: Odissea al femminile nella grande bellezza di Napoli
di Roberto Oliveri del Castillo
magistrato e scrittore
L’amico Enzo Varricchio mi chiede, col solito garbo da gentiluomo di altri tempi, un’opinione sull’ultimo film di Paolo Sorrentino, dall’evocativo nome di Parthenope, “ma io – ho risposto all’amico – non faccio testo…sono troppo di parte”. Anzi, come direbbe il Principe De Curtis, “sono parte…nopeo e parte napoletano”. Arguzie a lato, troppo di parte; non solo e non tanto come napoletano, e nemmeno perché nella specie napoletano del Vomero, ovvero lo stesso quartiere di Sorrentino e di Orlando, ma soprattutto perché per me, anche se il Maestro girasse un Carosello, uno spot, o un intervallo, sarebbe comunque da premio Oscar.
Consapevole della mia totale inattendibilità, e privo di credibile obiettività, possiamo procedere a poche e disordinate riflessioni sulla pellicola del Maestro.
Si potrebbe ad esempio partire dalla fine del film, dalla frase “Dio non ama il mare”. Una frase sibillina, come spesso si trovano nei dialoghi sorrentiniani, ma che può avere una spiegazione in un’altra frase del film, quella pronunciata dal triste e fragile Raimondo, fratello di Parthenope, quando dice, contemplando il mare meraviglioso di Posillipo “non si può essere felici nel posto più bello del mondo”. E che a mio avviso si lega a quelle, altrettanto evocative e intense, di Pino Daniele nel brano “Chi tene o’ mare” (“chi tene o’ mare o’ ssaje, porta na croce” e “chi tene o mare o’ssaje, nun tene niente”).
Il mare, secondo me, è come la conoscenza: è sofferenza, sia quando è calmo, perché può essere solo apparenza mentre nelle sue profondità è scosso da forze immani, sia quando è agitato o addirittura tempestoso. Un po’ come l’animo umano, che può dissimulare i più profondi turbamenti con una calma apparente e poi lasciarsi prendere da tempeste tropicali. Le frasi del film, come del brano di Pino Daniele esprimono questa ambivalenza di fondo.
Cosa esprimono questi concetti? Probabilmente la difficoltà, la tragicità, la sofferenza, soprattutto per chi ha una certa sensibilità interiore, una empatia, nel confrontarsi con questa Grande Bellezza, la Vera Grande Bellezza, quella che ammalio’ i tanti viaggiatori del Gran Tour, come Goethe, che giunto a Napoli, dopo Roma, disse che:
“Roma al confronto (di Napoli) sembrava un “vecchio monastero mal situato” mentre “di quanto si dica, si narri o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate…io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!”.
Deve essere necessariamente frastornante, struggente, obnubilante, infatti, confrontare la propria limitatezza, le proprie fragilità, con l’immensità dei panorami da Posillipo a Capri, dove l’occhio si perde in un’altra dimensione, oltre il tempo e lo spazio, che mette in pace il cuore e crea un diaframma tra noi e gli affanni proprio come Cooper in una sorta di Interstellar sulla Terra. Ma dopo la prima, ammaliante sensazione di pace, di serenità, di distacco, si può essere sommersi da quella atarassia fino al punto da soffocare, se non si fa attenzione, se ci si abbandona troppo, come il canto delle sirene per Ulisse finisce per uccidere, e non a caso Palepolis, la città vecchia, nasce da una sirena che si è lasciata morire alla deriva per non essere riuscita a sedurre il mitico viaggiatore dell’Odissea.
Una Grande Bellezza forse da prendere in piccole dosi, altrimenti potrebbe avvelenare, paralizzare, uccidere, come succede anche con la migliore pozione e con la più efficace medicina. Una Grande Bellezza che “ferisce a morte o addormenta, o tutte e due”, come nel famoso romanzo di Raffaele La Capria (“Ferito a morte”), memore della lezione di Goethe. Come nel capolavoro del premio Strega, anche qui il mare con i suoi colori, odori, umori, è il vero co-protagonista, insieme a Parthenope, del racconto. Fattore di vita (la nascita di Parthenope nelle meravigliose acque di Posillipo) e di morte (il lasciarsi andare per sempre nelle acque capresi di Raimondo), testimone silenzioso dell’inno alla giovinezza spensierata, testimone consapevole della sua brevità e fuggevolezza, a fronte delle connaturali traumatiche angosce e dei dolori della vita. Il mare è presente nelle varie vicende della vita di Parthenope, fino a quando l’amore per l’antropologia la porta lontano da Napoli, verso il suo contrario (la montanara e bellissima Trento), spinta momentaneamente (“solo un paio di anni”) dal prof Marotta, un Silvio Orlando sempre superlativo nella parte del cinico e “spuntuto” professore dal cuore tenero dietro la scorza scostante e irritante. Sarà lui il padre putativo della protagonista, quello che intuisce la sua inclinazione, le sue qualità interiori occultate, velate dalla sua grande bellezza (ancora…) e come un ostetrico la porta dalla adolescenza verso la sua nuova vita da antropologa, facendole capire che nella vita in generale, ma ancora di più nel lavoro di antropologo, conta vedere la realtà. Ma per vedere devi portarti oltre la bellezza abbagliante del Golfo, che spesso confonde, ottenCebra i sensi, oltre la giovinezza, con tutte le sue illusioni, i suoi progetti, i suoi sbagli: progetti, illusioni e disillusioni che sembrano consustanziali con Napoli e le sue energie migliori. Si pensi al progetto della rivista “Sud”, cui partecipò il giovanissimo La Capria insieme alla “meglio gioventu’” napoletana, che per tre anni, tra il 1945 e il 1947, sulle macerie della guerra, portò una ventata di internazionalismo letterario in una città distrutta fisicamente e moralmente. Quei progetti, quelle speranze quegli amori, che, come sogni (come dice un grandissimo Gary Oldman nei panni dello scrittore John Cheever), svaniscono all’alba.
Un’entropia dei sentimenti e della giovinezza, con la conoscenza che, come l’energia, quando si crea in qualche parte dell’Universo, altrove si distrugge attraverso il sacrificio del tempo, bene supremo, o attraverso la perdita di affetti.
Tra questi due giganti della scena, il vecchio scrittore e la giovane studentessa, c’è un legame breve ma intenso e profondo, potrebbe nascere qualcosa, un innamoramento, se non fosse di ostacolo l’omosessualità di lui, che rinuncia al piacere di una passeggiata notturna con Parthenope “perché non voglio rubare nemmeno un attimo della tua giovinezza”.
Il processo di crescita e di maturazione della protagonista sarebbe monco senza una presenza oscura, oltre il fascino abbagliante del Golfo e delle sue magiche acque, quella della discesa agli inferi come prima di lei i grandi protagonisti della letteratura di tutti i tempi, da Ulisse ed Enea fino alle aberrazioni de La pelle di Curzio Malaparte, con gli abissi di perdizione della Napoli in guerra. E la discesa agli inferi, a Napoli, non può non essere la doppia oscurità della notte passata nei bassifondi della città, con un boss della camorra come novello Virgilio a fare da guida nella parte malvagia e promiscua, quella “bastard, dirty people” che affolla Toledo e i suoi vicoli, di cui parla il colonnello Hamilton con il capitano Malaparte ne La pelle.
La conclusione (quasi scontata) è una liason con il bel camorrista, in una notte che sembra non passi mai. Una notte che, come Shakespeare fa dire a Giulietta, “si accorda con l’amore cieco” quale quello col giovane boss, una notte iniziata col monologo dissacrante e sferzante sui mali della città della bravissima Luisa Ranieri, alias Greta Cool, attrice cult dalle sembianze puteolane, che ha abbandonato Napoli, ed ora, come si dice, sputa dove ha mangiato insultando Napoli e i napoletani, non senza qualche scomoda verità. Ma, come è tradizione, “adda passà a nuttata”, per citare Eduardo, ed anche la peggiore nottata lascia il posto al Sole del mattino, e in fin dei conti “inferos non praevalebunt” (Matteo, 16, 18), di talché l’esperienza infera viene archiviata come un rito di passaggio dalla giovinezza alla prima maturità (seppure con i suoi strascichi, una maternità non portata a compimento), simboleggiata da un nuovo incontro col prof. Marotta che le schiude le porte della carriera a cui aspira, non senza passare da un’ulteriore, ultima, esperienza estrema, questa volta a metà tra il mistico e il lussurioso, con il Cardinale seduttore e “rattuso” Tesorone, un Peppe Lanzetta di una meravigliosa espressività fin dalla sua entrata in scena, mentre si fa la tinta ai capelli in mezzo al Duomo (“Mi sono rotto il cazzo di fare il miracolo! Poi il sangue non si scioglie, e la colpa di chi è? La mia!”).
La polemica accesasi sulle scene di Parthenope seminuda con indosso un simil tesoro di S.Gennaro made in Swarowsky, e in intimità col Cardinale, lascia il tempo che trova, non essendo certo una invenzione cinematografica che prelati anche alti facciano sesso, anche in luoghi sacri. I benpensanti dovrebbero scandalizzarsi di ben altro, visto che la cronaca ci ha svelato in questi 40 anni di cose ben peggiori fatte da preti immeritevoli della tonaca, come ad esempio coprire e depistare vicende tragiche ancora avvolte da mistero come i casi Orlandi e Claps. Il congedo dal simpatico seduttore porporato costituisce anche una sorta di addio alle esperienze estreme della protagonista, pronta ad assumere il ruolo sociale che le compete per le sue qualità. La maturazione di Parthenope sembra passare attraverso queste esperienze sessuali quasi “obbligate” per dimostrare a se stessa di avere il controllo, di essere in grado di decidere dove le altre scapperebbero (il camorrista bello e dannato, il prete “rattuso”), un darsi anomalo, senza amore, per distrarsi e gettarsi via, in fuga dal dolore della morte del suo unico, vero amore, quello incestuoso verso il fratello Raimondo, del quale porta il soffocante senso di colpa della sua prematura morte, più forte anche di quello, forse troppo naturale ed “ordinario” per Sandrino, amico d’infanzia.
Poi, dopo il saluto al prof. Marotta e la conoscenza del figlio Stefano, la cui grave patologia lo rende simile al mare (“è fatto di acqua e sale”- “come il mare!”, ancora), altra personificazione della sofferenza, la partenza per Trento, lasciandosi alle spalle l’amata Napoli, le amate/odiate acque del Golfo, dove torna, novella Ulisse al femminile, dopo un viaggio di quarant’anni nella carriera universitaria destinata a vedere l’uomo nella sua morfologia e nella sua spiritualità, autentica definizione del concetto di antropologia.
Il Nostos non può che approdare a S.Lucia, di fronte a quell’isolotto di Megaride dove il mito colloca l’arrivo di Parthenope morente, e dove sfila la nave di un altro ritorno, quello dello scudetto del 2023, anch’esso dopo 33 anni. L’inno che si sente dalla nave dei tifosi (“un giorno all’improvviso”) sembra in realtà rivolto proprio a Parthenope, che dopo tanti anni è ancora qua, “per difendere la città”.
Allora forse Napoli si può salvare grazie alle sue energie migliori, grazie alla cultura alta contro quella bassa e antitetica della zona infera, cui non dobbiamo rassegnarci, mettendo insieme le forze dei napoletani resilienti, quelli che restano, e quelli emigranti, quelli che tornano ricchi dell’esperienza del viaggio. Allora, forse, non si può essere felici nel posto più bello del mondo, come dice il preconizzante e tragico Raimondo, però, dopo una vita passata lontano dalla Grande Bellezza del Golfo, in un altrove che costituisce il viaggio fisico e interiore della conoscenza, nel posto più bello del mondo si può, si deve tornare, come Ulisse ad Itaca, e Sorrentino ce lo dimostra con un alto lirismo, a tratti commovente nei suoi dialoghi più emotivamente intensi.
Tornano in mente, allora, le parole di Kavafis sul nostos, “Sempre devi avere in mente Itaca. Raggiungerla sia il tuo pensiero costante. Soprattutto, però, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cosa altro ti aspetti? “.
E’ esattamente quello che succede a Parthenope, che torna sulle sponde dove il suo corpo “fanciulletto giacque” direbbe Foscolo, pronta ad affrontare quella fase della vita dove tutto è, o dovrebbe essere, meditazione ed elemosina (Hilman), osservazione e comprensione, e dove l’effimero, la spensieratezza e le notti insonni di bagordi restano quello che sono, distrazione giovanili, ricordi adolescenziali svaniti all’alba, parte di un percorso esistenziale ormai archiviato, nulla di più.
Una nota particolare merita la musica che accompagna molte scene del film, “Era già tutto previsto”, con un Cocciante d’antan, coevo con il tempo della storia che esprime tutta la sofferenza di un’amore finito e che porta addirittura il protagonista a desiderare la morte. Triste presagio.
Nel film le uniche persone che amano Partenope sul serio e non in modo occasionale sono Raimondo, il fratello, che la morte se la dà dopo aver visto Parthenope insieme all’amico Sandrino, e lo stesso Sandrino, amico d’infanzia dei due fratelli, che per sfuggire alla delusione di non essere ricambiato veramente da Parthenope partirà per allontanarsi da Napoli.
Avrei visto bene, come musica di base, anche Chi tene o mare, sopra ricordato, per le note struggenti sulla città e il suo golfo, con il graffiante sax di james senese a fare da controvoce alla voce di Pino Daniele. E, se mi è consentita una nota personale, mi sarebbe piaciuto anche un brano come A fragile thing dei Cure, tanto per restare in argomento “amori strazianti”, dove si parla di solitudine dopo la fine di un’amore, che “has left me hurt, and sad and lost”.
Un film, Parthenope, che sembra la sintesi tra La Grande Bellezza, trasposta nel luogo più consono, ovvero nel Golfo, e Youth, ovvero il passare del tempo, lo sfiorire della giovinezza con tutte le sue esperienze, che però porta l’esistenza ad un livello di consapevolezza superiore.
Attraverso lo sguardo disincantato di un Jepp Gambardella al femminile, Parthenope, vero Genius loci, compie il suo viaggio, dalla nascita nelle acque di Posillipo, fino alla maturità, attraverso un percorso esistenziale denso di contraddizioni, ambiguità, perversioni, tragedie e gioie, difetti e intense qualità, fino alla finale consapevolezza di sé, tale da poter sopportare in modo gioioso il ritorno alla fonte primigenia dove tutto è iniziato, in un percorso circolare anch’esso tributario del capolavoro di La Capria, che, siamo sicuri, da lassù avrà certamente applaudito la pellicola di Sorrentino, con qualche lacrima.
Parthenope Official Trailer
https://www.youtube.com/watch?v=kIaxULtM020