Se dovessimo cercare un sottotitolo per il bel film di Ozpetek, “Diamanti“, dovremmo scomodare la psicoanalisi junghiana e, parafrasando gli scritti di Luigi Zoia sulla figura paterna, dovremmo parlare di “evanescenza e scomparsa del maschio”.
Che cosa porti il bravissimo regista italo-turco a imprimere alle sue opere una costante assenza, uno svilimento di figure maschili, lo si può anche immaginare. E tuttavia la vita non è così manichea, per fortuna, dal mostrare sempre figure femminili ricche e umanamente positive e significative, e figure maschili nella migliore delle ipotesi scialbe o insignificanti, nella peggiore delle ipotesi negative se non addirittura violente e criminali.
Già in “Mine vaganti” si era avuto un sentore della (nulla) considerazione di un genere rispetto agli altri due, con personaggi positivi al femminile o maschi rigorosamente omosessuali, mentre le figure maschili erano (il padre, il cognato del protagonista narrante) fortemente negative nella loro piatta banalità del maschio tradizionalista e retrogrado.
Diamanti è un film splendido per le performances, davvero brillanti, del cast quasi tutto al femminile. Ma la costruzione della storia e della sceneggiatura presenta una spiccata componente di irrealtà, un dosaggio dei chiaro-scuri fortemente manicheo nella composizione di personaggi femminili tutti con forti connotazioni positive (anche la figura di Alberta, che pure appare nella sua durezza e nel suo cinismo come una figura da intensi lati oscuri che poi, pero’, evolvono in positivo), mentre i pochi personaggi maschili spiccano per pochezza umana e spirituale, fino al violento e maltrattante Bruno, marito energumeno di Nicoletta, nel cliche’ dell’omaccio in canottiera che vuole solo che la moglie gli prepari la cena, senno’ sono botte. Dubito che anche negli anni 70 e 80 il maschio italiano fosse solo questo, o in alternativa una qualche nullità isterica (il regista, il bravo Stefano Accorsi) o da marionetta (i commessi che a comando ballano e cantano, tipo scimmiette ammaestrate) del tipo offerto in visione allo spettatore. Possibile che negli spaccati che offre il film non ci sia alcuna figura maschile con tratti positivi? Una persona vagamente normale? Una persona tranquilla e con evidenti capacità di gestire dolori e traumi senza alterare la sua capacità di giudizio? In effetti c’è, è Lucio, il marito di Gabriella, ed infatti è relegato in una particina secondaria e marginale, di pochi minuti ogni volta che appare.
È un vero peccato che il regista abbia scelto questa impostazione tutto sommato facilitante se non addirittura scontata e banale.
Perché i diamanti, per tornare alla azzeccata metafora del film, splendono anche se vicino hanno altre pietre preziose, che finiscono per impreziosirli ulteriormente, e non solo se sono circondati dal carbone di maschi regrediti a livelli subumani.
Nella critica alla società patriarcale che si legge in sottofondo, la proposta, l’alternativa, la prospettiva, non è una società finalmente libera dai pregiudizi di genere, di pari ed eguali che si rispettano in vista di fini comuni ed armonici (il lavoro, la famiglia, la coppia, etc), bensì è solo una società di stampo matriarcale, o per dirla con Zoia, matrocentrica, con scambio di ruoli tra maschi e femmine, donne al comando, maschi subalterni.
Insomma, che cambino i suonatori, mentre la musica resti la stessa.
In definitiva, un universo parallelo un po’ troppo irrealistico, mieloso e a senso unico, esemplificato soprattutto nella scena del pranzo aziendale con nemiche storiche che improvvisamente si scoprono amiche per la pelle e ammiratrici l’una dell’altra, nel solco di una soap a lieto fine da iperuranio realizzato. Allo stesso tempo, qualche tributo francamente di troppo all’Almodovar diTutto su mia madre, compresa la dedica alle attrici cult defunte, che almeno nel numero (3, numero notoriamente perfetto) poteva esprimere uno stacco di fantasia. Peccato per l’ennesima occasione sprecata.
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