Guardando indietro
L’arrivo in un aeroporto è sempre stato per me fonte di stress. La paura dei ritardi, lo shampoo nelle boccettine (dimensione Barbie!) che fuoriesce nella pochette e la fila infinita ai controlli di sicurezza. Ad ogni buon conto, finiti gli obblighi ‘doganali’, il momento che separa il check-in dall’imbarco al gate è sicuramente il più rilassante: un libro nuovo o qualche app sullo smartphone risultano un’ottima compagnia. A volte però può capitare che la lettura sia noiosa o che gli occhi brucino davanti allo schermo, così distendo la schiena sulla poltroncina e parte il défilé. Decine di passeggeri si susseguono come in una danza appassionata: un padre guida un passeggino con all’interno un bimbo biondissimo e incrocia un gruppo di anziani orientali con dei sandali molto buffi; con la loro goffaggine hanno urtato la ragazza con i jeans strappati che guarda il tabellone elettronico, è tesa, starà pensando alla sua amica che non vede da diversi mesi, ne sono sicuro. Accanto a questa coreografia improvvisata colui che cattura la mia attenzione è il solista: è alto, non è muscoloso, ha i pantaloni corti che evidenziano una pelle abbronzata, ha tanti capelli e uno zaino sulle spalle a sacco sulle spalle. Mi ricorda molto Edward Bloom! In Big Fish (T. Burton, 2003) è protagonista la sua giovinezza, pervasa dal desiderio di conoscere ciò che si trova al di fuori del proprio paesino, dall’ambizione di confrontarsi con nuove realtà ma soprattutto dalla smania di mettersi alla prova. La fiducia nelle proprie capacità e la determinazione con la quale ha affrontato ogni contesto hanno permesso a lui di porre obiettivi sempre nuovi davanti a sé, arricchendosi di storie, di esperienze ma soprattutto di persone. Le stesse persone che hanno persuaso il suo animo a ritornare su strade già percorse, ad Ahston così come a Spectre, perché -sarà retorico- ma si torna sempre dove si è stati bene.
Il gate è stato finalmente aperto e mi avvio verso l’imbarco. In fila, con il trolley sempre accanto, noto di sfuggita un uomo afroamericano vestito elegante, che parla che parla animatamente con il suo interlocutore, nascosto dietro un muro. Non mi sporgo a osservare, mi piace pensare che dietro quella parete ci sia Tony Vallelonga, che pianifica insieme a Don Shirley il prossimo itinerario di viaggio. Il buttafuori di origini italiane, co-protagonista di Green Book (P. Farrelly, 2018), si ritrova forzatamente compagno di viaggio, non solo di una persona di etnia diversa dalla sua, ma soprattutto delle proprie convinzioni, scardinate lentamente dal contatto forzato con il musicista. La convivenza imposta dei due ha portato Tony ad andare oltre il colore della pelle del suo assistito riuscendo a intravedere il valore e la tenacia di un professionista ma anche la fragilità e la sofferenza dell’uomo, uomo che fino ad allora veniva percepito discordante dalla propria realtà.
Il viaggio si trasforma quindi in una scoperta non programmata, in una crescita personale che può arrivare anche in età matura ma che viene affrontata con la criticità e con il coraggio di andare contro a tutto ciò a cui si è creduto per una vita intera, attingendo esclusivamente alla propria esperienza; il personaggio è universale e contemporaneo, nonostante lo sfondo sia l’America degli anni ‘60, e ritorna dalla propria famiglia e alla propria quotidianità completamente rinnovato, ma soprattutto arricchito di nuovi valori da trasmettere ai suoi cari.
Il volo è stato breve e all’arrivo in aeroporto mi reco alla fermata del pullman per raggiungere il centro città. Al chiosco per il noleggio delle auto noto una coppia impacciata che cerca di caricare delle valigie in un furgoncino, lui sulla trentina e lei più giovane. La ragazza è un po’ trasandata, indossa scarpe modello militare e ha i capelli legati. Se quei capelli fossero stati di un rosa sbiadito e se sotto la sua maglietta ci fosse stato un pancione la somiglianza con Mia, protagonista femminile di Il padre d’Italia (F. Mollo, 2017), sarebbe stata impressionante. La ragazza è allo sbando, incinta di uno sconosciuto, senza sogni e progetti. L’unica certezza è il rapporto conflittuale con la famiglia, in particolare con la madre, dalla quale torna caparbiamente ancora una volta; dopo l’ennesima discussione e l’ennesimo tentativo di dialogo, Mia capisce di essere insofferente a quella realtà e inadeguata al ruolo di genitore e riparte per l’ultima volta. Il ritorno, quindi, si configura come la sicurezza che tutto ciò che abbiamo lasciato spesso rimane immutato: le strade, i pensieri, la spiaggia, gli obblighi, le sedie di plastica in giardino, le persone. Per ripartire bisogna essere certi di quello che si sta lasciando, costantemente. E Mia in Calabria non si tornerà più.
Il pullman è arrivato e, prendendo posto vicino al finestrino, mi domando dove siano diretti gli altri passeggeri del volo, e mi piace pensare che da qualche parte ci sia qualcuno ad aspettarli.
Che sia un pullman, un messaggio, un aereo, una telefonata, un treno o una lettera, tornate! Tornate sempre! Perché un’esperienza di viaggio, a breve o a lungo termine, provvisoria o definitiva, desiderata oppure obbligata, la si affronta per due volte: mentre la si vive e mentre la si racconta; ad ascoltare ci saranno quelli che restano, o meglio….quelli che non sono ancora partiti!