Giocare per vivere vivere per giocare
Di Emanuela Megli
Donna, moglie, madre, coach, imprenditrice e scrittrice
Domenico Savio, quando don Bosco gli chiese, mentre stava giocando, cosa avrebbe fatto se in quel momento fosse arrivata la fine del mondo, gli rispose con candore: “Continuerei a giocare”. Non aveva nulla da perdere. Nulla da temere. Perché una persona è tranquilla quando non ha dubbi pendenti, quando sa di fare ciò che è giusto e – nel suo caso – ciò che Dio gli chiede.
Quindi il gioco è il momento in cui siamo totalmente e piacevolmente assorbiti in un’attività che ci piace e che ci coinvolge e pertanto siamo in uno stato di presenza nella nostra dimensione più naturale. Come sta la pianta, il sole, le stelle, la terra, quando sono.
Il gioco, dunque, è la dimensione ispirata dal piacere e dal divertimento, che ha comunque certo le sue regole, i metodi, i tempi e gli spazi necessari, ma è soprattutto una forma di svago e di evasione.
Ci può essere uno sforzo nel riuscire a raggiungere un traguardo, ma il piacere è nel viaggio, nel gioco stesso e non nella meta. Infatti, la sensazione di piacere e di leggerezza che proviamo è dovuta alla possibilità di mettere in conto anche la perdita, accanto alla vittoria. Perché il gioco non si esaurisce nella prima partita, nella prima mano di carte o nel torneo, ma è un continuum in cui il giocatore entra nel flusso del divertimento.
Quando il gioco è puro, è un divertimento per sé stesso, quando diventa un’ossessione o una dipendenza, non è più un piacere, perché alimentato dal bisogno di ottenere il successo. Ma come sappiamo, il successo è dato in parte dalle carte che la vita ci offre e in parte da come noi ce le giochiamo.
È fondamentale quindi intervenire su quella parte che possiamo gestire in prima persona, ovvero sul modo di interpretare e gestire il gioco interiore.
Il libro “The Inner Game of Tennis” di W. T. Gallwey – (in Italiano “Il Gioco Interiore nel Tennis) è un “manuale” sorto negli anni ’70, il cui metodo, originato dallo sport, viene oggi applicato in diversi contesti, personali e lavorativi, individuali e organizzati, col fine di imparare a concretizzare il risultato migliore desiderato a partire dal proprio modo di parlare a sé stessi, di immaginarsi e di concentrarsi su ciò che desidera.
Il senso di un buon gioco però resta il gioco, ovvero la capacità di stare nel flusso del processo, stando appunto al gioco.
E se la vita fosse un gioco…? L’equilibrio starebbe nel saper cogliere il senso di ciò che ci accade in una dimensione più ampia. Una visione di valori in cui gli opposti -successo e fallimento-, al di là del nostro impegno, rappresentano la dinamica di processo unitario in cui il gioco della vita si realizza e che non si può sceglierne uno e escludere l’altro.
Diceva Anselm Grün: “La fede reinterpreta tutta la nostra vita. Si riferisce al successo e al fallimento, alla nascita e alla morte, alla salute e alla malattia, alla felicità e alla disgrazia, a tutte le esperienze che ci risultano spesso oscure e che non sappiamo come intendere.