Anche se la prima cattedra universitaria di economia del mondo è stata istituita a Napoli, ormai da tempo immemore in economia si parla anglosassone. Sarà per i ragazzi di Chicago, sarà per Keynes, per la London School of Economics, per il Financial Times, sarà come sarà, financo gli interventi più banali come l’acquisto sul mercato aperto di titoli di stato si ammantano di acronimi, quasi fossero “dottrine” economiche anglosassoni -come il quantitative easing: QE- anche se sono prassi antiche e inventate e sperimentate da decenni prima.
Questa specie di psicopatologia collettiva comincia a divenire cronica e pervasiva dopo la fine della prima guerra mondiale. Per tornare agli equilibri e al funzionamento spontaneo delle economie dei tempi prebellici si cercò di ricreare il collegamento delle monete con l’oro che era il fulcro dell’economia liberale del secolo precedente; così giù ad inventare gold bullion standard prima, il dollar standard dopo, ma tutto vano, un sistema automatico in salsa britannica non si riusciva a trovare; tra svalutazioni bibliche del marco negli anni venti, svalutazioni competitive con la sterlina in testa, Grande Depressione dettata proprio dalla ortodossia liberale inopportunamente applicata all’economia americana,…appena i cannoni a Verdun e sul Piave hanno taciuto l’economia anglofona è riuscita a distruggere quel poco di economia e finanza libere che erano rimaste in piedi con il relativo malessere sociale e politico che nutriva i biechi disegni delle sinistre. Tra bienni rossi e soviet dilagati in ogni dove negli anni venti, sembrava che la disonestà intellettuale che animava i leader delle sinistre di allora (in poco difforme da quelle specifiche delle sinistre odierne) avrebbe avuto la meglio.
Invece sarà proprio un socialista massone di Caserta e quindi madrelingua italiano -oltre che italiano vero come può esserlo un campano- che inventa e concretamente realizza l’intervento dello stato in economia che salverà le banche -incluse quelle ebraiche italiane- e i grandi conglomerati industriali sul punto di collassare originando tra gli anni venti e trenta quella alleanza tra stato e grande capitale che vige ancora oggi nella formula too big to fail appunto in inglese quasi fosse una invenzione di un qualche presuntuoso presidente sinistrorso americano. Ma anche il new deal cosa altro non fu se non una copia un po’ sbiadita degli ardimenti economici fascisti inventati dall’economista comunista casertano? E anche il mai sufficientemente discusso Keynes cosa altro fa se non cercare di trascrivere a metà degli anni trenta dentro formule e diagrammi in salsa anglosassone le esperienze maturate negli anni precedenti in Italia e poi confermate in ogni dove?
Il pensiero vincente e creativo fu latino ma la gloria anglosassone.
Il bello è che ancora oggi non riusciamo a dire nulla di nuovo che superi quelle idee italiane (che il main stream, come didevamo, chiama keynesiane) che sono evidentemente insufficienti nelle sfide odierne che ci impongono di misurarci con le nuove perverse tecnologie e con le purulente metastasi che vedono gli stati completamente ostaggio di interessi privati di gran lunga più grandi e meglio organizzati delle organizzazioni pubbliche ufficiali.
Chi ci trarrà d’impaccio prima del collasso finale? Prima dello stesso collasso finale che abbiamo sventato nel ’29/’33, come anche nel 2009, sempre con il concreto aiuto del contribuente? Gli anglosassoni possono mai essere creativi ed eretici al punto da invertire l’attuale evoluzione della teoria e prassi economiche e finanziarie ortodosse ma suicide? Certamente no! Serve un modello latino -che sarà poi dimenticato e coperto dalla forza dei vincitori che si attribuiranno i meriti- ma che sarà -come sempre è stato- il modello supremo per ogni tipo di società e di economia.
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